Lo scorso novembre, contro ogni previsione, una piccola delegazione di MOW è partita da Milano per andare a vedere l’ultima gara di Valentino Rossi a Valencia. Circa 3.000 chilometri di viaggio in moto, una lunga sosta a casa di Marc Marquez e una serata a bere gin tonic con Fabio Quartararo e Jack Miller. Chi l’avrebbe detto. Una volta arrivati in quel paesino di novemila anime che è Cervera, facilmente etichettabile come la Tavullia di Spagna, siamo entrati nel museo che Marc Marquez ha dedicato alla città. Dentro ci sono tutte le moto con cui ha corso, dalla prima in assoluto - una piccola Yamaha bianca e rosa con le ruote tassellate - fino alle MotoGP con cui ha vinto i suoi sei titoli nella massima serie. Tra una moto e l’altra sono esposte le tute, i caschi e tutti (tutti!) gli 85 trofei conquistati nel motomondiale. Quando guardi quella vetrata scintillante senti le urla e la rabbia, la gioia agonistica di un fuoriclasse, il sudore e la gloria. Nessun altro sportivo del suo livello ha messo in piazza una collezione così, gratuita per ognuno e completa di ogni cosa. Entrare in quel piccolo museo (di fatto una sola, grande stanza) è stato, nonostante tutto, un momento molto intenso. E, con nonostante tutto, intendiamo la superbia con cui Marc ha affrontato in più occasioni la direzione gara, la supremazia con cui ha ucciso il binomio Dovizioso-Ducati ma soprattutto, inutile negarlo, per le sue scelte nel 2015. Di quell’anno ha ragione chi dice che Marc avrebbe potuto anche parlare chiaro una volta finito il mondiale: si, ho fatto il possibile per far negare il decimo mondiale a Valentino Rossi, mi ha attaccato in pubblico e non sono qui per prendere lezioni da un vecchio. Una cosa del genere alla gente sarebbe piaciuta di più.
Uno come Marc Marquez però non lo si può giudicare per questo, non lo si può fare se si ama il motociclismo. Marc ha portato il gomito sull’asfalto in MotoGP e ha collaudato un metodo fatto di cadute a ripetizione per trovare il limite, arrivando ad aggiustare le chiusure d’avantreno a suon di facciate sull'asfalto. Come al Mugello nel 2013, quando è finito dritto nella ghiaia della San Donato a trecento all’ora. Ma a lui non gliene è mai fregato nulla, come non gliene è fregato nulla di Valentino Rossi, dei suoi nove mondiali e del suo pubblico intercontinentale. A lui frega solo di correre più forte di tutti gli altri. Ed è la prima cosa che vorrebbe fare un appassionato, da quelli che scannano sui passi di montagna in tuta integrale ai piloti veri, Valentino incluso.
In questi anni di pandemia Marc Marquez ha visto l’inferno due volte di fila e - che ironia - è arrivato a vederci doppio. Però, va detto, a Jerez prima di cadere stava girando intorno agli altri come un aereo in mezzo ai piccioni. Si pensava non avrebbe più corso e invece è tornato a vincere le gare (tre nel 2021) con una moto poco competitiva. In conferenza stampa, la settimana scorsa, ha ricordato che da quattro anni passa la pausa invernale a raccogliere i cocci rotti durante la stagione. Prima la spalla, poi il braccio, poi di nuovo la spalla, ora la vista. La sintesi è che Marc Marquez ha mangiato merda per due anni e l’ha fatto solo per tornare a correre, ossessionato da quello che per lui è l'unico modo dignitoso di campare.
Quando finalmente è tornato ad allenarsi ha deciso di farlo nel motocross, riprendendo esattamente da dove aveva lasciato a causa della diplopia: sei scemo, avranno provato a dirgli. Ma stato è lui a rispondere, davanti ai giornalisti, che l’ha fatto per esorcizzare la caduta. Finito col cross e con la stampa è andato a Portimaõ per ritrovare la sensazione di viaggiare a trecento all’ora, poi è passato al kartodromo di Aragon con una 600 per mettere alla prova il fisico. Non contento è tornato in motocross per finire sui kart a due tempi. Uno con questa agenda settimanale, se ti piacciono gomme benzina, lo puoi odiare solo per invidia.
I piloti non si misurano con titoli mondiali, il talento e la simpatia. Altimenti Kevin Schwantz non sarebbe l’idolo indiscusso di molti e di Marco Simoncelli non si ricorderebbe nessuno. Il pilota, a stringere, lo si misura con la passione che mette in quello che fa, per la sua voglia di correre e di lasciare un segno. Marc Marquez è tornato per l’ennesima volta e lo ha fatto solo perché ha ancora la fame dell’ultimo degli amatori. Ecco perché insistere dicendo che è un grande pilota ma un piccolo uomo è semplicemente ridicolo: Marc Marquez è un monumento al motociclismo. Ha pagato per tutto il talento che si è trovato tra le mani da bambino, mette tutto sé stesso per essere eccezionale, preferisce vincere che campare. E, anche quest’anno, a chi lo contesta risponderà come Matteo Berrettini agli Open d’Australia: non vi sento.