È davvero difficile stare dietro a Mike Maric. Dentro e fuori dall’acqua. Me ne accorgo fin dalle sue prime parole che lasciano trasparire la razionalità del pre-gara, l’entusiasmo di un’atleta e l’attrazione irresistibile per l’acqua. Un percorso verso un blu sempre più intenso, quello dell’apnea e della profondità del respiro che inizia presto, prestissimo.
«Mi sono avvicinato all’apnea grazie a mio padre: sono nato a Milano ma le mie origini sono istriane. Durante le festività italiane, soprattutto d’estate, passavo tanto tempo al mare con i miei nonni ed altri parenti quindi già tra i quattro e cinque anni andai alla scoperta dell’elemento acquatico: conservo ancora la muta di mio padre». Mike si tuffa senza troppi preamboli nel suo passato di sportivo, sembra quasi davvero di vederlo a colloquio con Enzo Majorca, tra i più celebri apneisti italiani alla costante ricerca di un nuovo limite da superare. Per arrivare dove qualcuno non era mai arrivato prima di quel momento, metro dopo metro.
«L’epoca dei record men è passata: gli anni Settanta di Mayol e Majorca, i Novanta con Pelizzari non esistono più e l’apnea forse non è più famosa come in quel periodo, quello del no limit».
Dopo una parentesi come nuotatore agonista nel Fanfulla Lodi, Mike si allontana dalla piscina: una parentesi che si chiude però durante la carriera universitaria, il richiamo dell’acqua e della dimensione dell’apnea diventa nuovamente irresistibile. «Quando ero studente universitario sognavo di diventare l’eroe delle storie che leggevo, di portare me stesso al limite. Per sette anni sono stato atleta della nazionale croata: vedevo il titolo mondiale dell’apnea come una medaglia d’oro alle Olimpiadi, la mia forte motivazione era quella di diventare l’uomo delfino, la mia vita era focalizzata su quell’obiettivo. La sera dopo le lezioni all’università di Pavia andavo in piscina dalle otto fino a mezzanotte, la mattina successiva alle sei ero su un pullman: ho sempre cercato un approccio professionale e di lavorare in maniera molto seria».
«Mentirei se dicessi che non mai avuto paura, ma è proprio la paura che ti dà il coraggio di affrontare determinate situazioni e soprattutto a quell’età hai un po’ di incoscienza e non temi troppo l’ignoto. Ci piace quello che non si può fare, che è pericoloso e che ti fa paura; ho sempre vissuto il mio viaggio nell’apnea come un allunaggio: dalla superficie dove c’è quest’acqua limpida e cristallina entro in un mondo nuovo, in un’altra dimensione dove il peso ha un altro peso e dove ti senti acqua nell’acqua». Mike insiste molto su questo aspetto, sul “Be Water” e sul superamento della paura interpretata come limite mentale e non fisico. «Sfatiamo il mito che l’apnea sia per pochi: rappresenta esattamente la metafora della nostra vita. Ho tratto molti insegnamenti dai momenti di paura e di ansia, da momenti che hanno alterato la mia esistenza: se però si gestisce il respiro si gestisce la mente e si mantiene il focus, la lucidità mentale».
Il tema della respirazione è centrale nel pensiero di Mike come quello del delfino che si è tatuato sulla pelle. E che si lega sia al movimento e all’ergonomia della monopinna che a «Il delfino ha un valore importantissimo nella mia vita: dopo la morte di un mio amico in mare ho avuto una crisi molto profonda, ho litigato con l’acqua e avevo bisogno di ritrovare me stesso. Mi sono messo alla ricerca del delfino che c’è in ognuno di noi ed ho viaggiato tanto per trovarlo: è stato il simbolo della mia rinascita e mi ha consentito di avvicinarmi a quella che è la mia visione di vita, diventare un allenatore e portare le competenze scientifiche nella vita degli sportivi e delle persone».
Mike però non finisce di stupire, di caricare le sue parole di una forte componente emotiva. E mi sorprende all’improvviso mettendomi di fronte ad una sua grande passione, quella per i motori. Che nasce tardi ma che lo travolge completamente. «La vita è un brivido che vola via: Vasco diceva così, no? Mio padre è sempre stato un appassionato di macchine, io da ragazzino ho avuto un incidente con mio fratello e sono rimasto vivo per miracolo: la patente l’ho presa a ventun’anni, giravo sempre in bicicletta».
«Mio padre mi ha convinto ad affrontare le mie paure iscrivendomi ad un corso di guida. Mi hanno insegnato a come comportarmi e gestire certe situazioni e sono tornato bambino: mi piace tutto quello che trasmette bellezza, le belle macchine ed il rombo dei motori».
C’è in particolare un marchio che trasmette a Mike questo ideale di dinamismo e velocità, quello Porsche. «Amo la Porsche per la sua linea intramontabile: me ne sono innamorato ad un Motor Show dei primi anni Duemila, c’era una Carrera 4S con il fascione rosso. Dissi a mio padre che un giorno me la sarei comprata e così ho fatto nel 2004: una Porsche è un’auto godibile anche nel quotidiano nonostante sia una supercar e la riconosci sempre».
«Mi piace vivere la macchina, quello che mi trasmettono l’assetto e la sua reattività: è fighissimo sentirla inchiodata a terra, quella adrenalina unica nel suo genere. Un giorno sono stato invitato in Lamborghini e ho passato un’intera giornata nel loro stabilimento provando diversi modelli: è stato un vero godimento, ho sognato come non mai». Dentro o fuori dall’acqua, con una muta o il piede sull’acceleratore: swim like a dolphin, drive like an Aventador.