Al Ula - Basta poco. Ho pensato questo stamattina quando mi sono svegliata. Oggi tappa a margherita Al Ula – Al Ula. Non esco in macchina sulla speciale e ne approfitto per indugiare un po’ nella tenda. Il termometro è sceso a 6 gradi durante la notte. Per fortuna Svetlana, la collega russa con cui ho condiviso tante Dakar, mi aveva avvertita così sono andata a dormire in due sacchi a pelo. Il ritmo della seconda settimana è pazzesco, sarà che la stanchezza e le poche ore di sonno si cominciano a sentire, sarà che l’arrivo a Yanbu è sempre più vicino e si comincia a fare il conto alla rovescia. I piloti rientreranno al bivacco solo verso le 14:00. Ne approfitto per fare colazione con calma, la doccia e il bucato. Ed è proprio dietro le quinte di questa grande macchina organizzativa che è la Dakar, che scopriamo l’altro volto della corsa.
Il bivacco infatti è una sorta di accampamento mobile che si sposta ogni giorno. Adesso che ci muoviamo in queste ampie distese di deserto, il campo è praticamente scandito, come un antico accampamento romano di forma rettangolare, da strade dove si sistemano i team e una grande piazza, dove sorgono le tende dei servizi più importanti: il catering, l’area concorrenti, il centro medico da campo, la molle moto, l’area per i piloti senza team di assistenza. Un villaggio insomma. Curiosamente, i vari servizi sono gestiti da nazionalità diverse.
Il catering è un’enclave filippina. Sono ben 60 gli addetti ai lavori che si danno il turno tra colazione, pranzo e cena. La corsa non si ferma mai: le prime moto partono anche alle 4:30 di mattina per cui i piloti e i team devono fare colazione prima del via. In quel momento possono rientrare gli ultimi camion di assistenza in gara che hanno passato la notte ad assistere le macchine dei loro concorrenti rimasti bloccati in qualche buco nella sabbia come l’equipaggio di Ricky Rickler e i fratelli di Lorenzo (Team RalliArt), che non hanno dormito per ben 3 notti di fila, centrando così il record assoluto di salvataggi nel deserto.
Quando arrivano devono mangiare anche loro, per questo il banco della pasta (logicamente scotta) è sempre in funzione. Per scacciare il sonno e la fatica, ogni tanto le ragazze filippine si mettono a cantare e ballare mentre servono il cibo: un menù decisamente poco variato. Il piatto principale non è cambiato nelle due settimane di gara: riso e pollo, pollo e riso oppure pesce. Ma dove lo troveranno il salmone nel deserto?
Basta rivolgere loro la parola e le ragazze si animano. Il volume della voce si alza, le risatine, le canzoni accennate e la vita inizia a scorrere anche se sono le 5 di mattina e vorresti solo tornare nella tenda. Apprendo così che la cucina è gestista da cuochi egiziani e sudafricani, qualcuno dice che ci sia anche un francese e un americano. Sicuramente non un italiano.
I bagni invece sono gestiti quasi esclusivamente dai ragazzi del Bangladesh. È il lavoro più duro, non importa entrare nei dettagli, e ogni volta mi stupisco del loro livello di sopportazione di questo ambiente male odorante. Invece loro restano in silenzio. Qualcuno si dà da fare, ogni volta che entra un “cliente”, altri restano semplicemente seduti a terra con la testa china sul cellulare. Quando ci sono delle ragazze, hanno il volto coperto. Quasi tutti sono di religione musulmana. Come Mohammed e Rayan. Prima di andare a letto ieri sera mi stavo lavando i denti in uno di questi container che servono come gabinetti. Non c’era nessuno. Così mi pareva. Invece dopo poco con la coda dell’occhio ho intravisto un ragazzo esile seduto in un angolo.
“Hi my friend, how are you?”. Niente. “What’s your name?” Niente. Allora mi sono venute in mente due parole in hindu imparate a Calcutta quando facevo volontariato nei dispensari di Howrah, la principale stazione del treno della città. “Pani (acqua), Sundar (bello)”. Il ragazzo alza la testa e il volto si illumina di un bianchissimo sorriso. Apprendo poco dopo che si chiama Rayan. Nella conversazione interviene infatti Mohammed. Entrambi sono arrivati il primo gennaio 2024 e hanno davanti a loro 2 anni prima di rientrare a casa. Ci facciamo una foto. Sono contenti, io pure. Basta poco. Una parola, un’attenzione per abbattere il muro dell’invisibilità e della solitudine.
Gli autisti di tutti i mezzi di trasporto dell’organizzazione sono invece di Riad o Gedda. Tanti sono nati in Arabia, altri nella vicina Persia. Persone in gamba che si danno da fare. Solitamente gentili e tuttofare. Mi hanno riparato anche la cintura! I posti di comando nelle varie missioni sono gestiti da francesi che possono vantare tanti anni di Dakar alle spalle. La logistica è talmente complessa che non si può sbagliare. Dal controllo degli ingressi del bivacco, i check point lungo le speciali, al servizio medico al campo, nelle macchine Tango sulle prove cronometrate agli elicotteri. Si parla di oltre 500 persone. Il nucleo originario di francesi si è colorato di argentini, marocchini, portoghesi e adesso anche sauditi, via via che la carovana ha toccato 3 continenti (Africa, Sud America, Medio Oriente) e tanti paesi nel corso di queste 46 edizioni.
Anche la sala stampa è un arcobaleno di idiomi, specchio delle 72 nazioni rappresentate sul rally. Praticamente le Olimpiadi dei motori. Gli angeli custodi di noi giornalisti sono Melanie Vallage, Fabrice Tiano, Clara Locatelli, Alberto Gonçalves, Louis Doucet e Rodolphe Sabatier. Sono armati di pazienza anche perché la sala stampa è un altro mondo bizzarro dove ne capitano di ogni. Dal collega argentino che trasmette a gran voce il pezzo per la radio a quello arabo che si stira la camicia. E infine gli autisti delle macchine media: francesi, spagnoli, portoghesi e anche un italiano, Emanuele Rasello, che quest’anno mi ha fatto vivere una delle emozioni più forti della mia vita: le roaring dunes, le dune che ruggiscono. Le dune qui posso arrivare fino a 250 metri di altezza e quando la discesa è ripida si crea un effetto tipo visivo e sonoro come una slavina di neve. Impressionante.
Per me era la prima volta anche perché ci vuole un driver esperto. La cosa più curiosa è forse il PC Course, la control room che segue passo i concorrenti in gara grazie all’iritrack che permette di localizzare in ogni momento piloti e macchine dell’assistenza. In caso di difficoltà i concorrenti possono sempre premere un bottone che chiama direttamente Parigi. E’ dalla sede centrale di ASO che vengono gestite le comunicazioni con i concorrenti e i membri dell’organizzazione sul percorso.
Da qui partono le prime indicazioni ed i soccorsi. Perché Parigi? Il servizio è attivo 24 ore al giorno mentre il PC Course presente sul campo è comunque itinerante. Come tutti noi si sposta da bivacco a bivacco e per garantire la massima sicurezza i turni sono sempre due: notturno e diurno. Ultima curiosità la logistica dei bivacchi che è super complessa: tutti i servizi essenziali sono doppi se non tripli perché i mezzi si spostano sempre con un giorno di anticipo. Il bivacco A il giorno dopo va al C, Il B al D. Una transumanza che dura 3 settimane se si conta una di preparazione sul posto per tutti i membri dell’organizzazione.
Ma è l’ora di andare. La prima moto è arrivata. Ricky Brabec del team Monster Energy Honda è in testa alla categoria moto e parla con la stampa appena scende di moto. Tra poco arriverà anche Carlos Sainz in testa delle generale per le auto. E la giostra riparte.
La Dakar in numeri
7.891 km di gara (4.727 di speciali)
590 concorrenti (187 team)
174 nella Dakar Classic
14 nella categoria Mission 1000 dedicata ai mezzi green
46 donne (18 nella Dakar Classic)
135 rookies
129 “Dakar Legends »
31 piloti iscritti nella Malle moto «Orginal by Motul » (senza assistenza)
434 mezzi in totale
137 moto
153 auto e SSV
46 camion
10 quad
80 veicoli classici
10 veicoli appartenenti alla innovativa categoria Dakar Future
72 nazionalità
163 Francesi
119 Spagnoli
72 Italiani
70 TV che trasmettono il rally in 190 paesi, 590 giornalisti, oltre 500 le persone dell’organizzazione, 3.500 persone circa la grande carovana della Dakar che ogni giorno si sposta da un bivacco all’altro.