La vita è Agnese che corre per il salotto, che ride e si emoziona. La vita sono Nadia, Agnese e Alice che si abbracciano, si fanno forza a vicenda e che vanno avanti con dignità e grazia, perché questo - e loro lo sanno più di chiunque altro - è il modo migliore per rendere onore a Fausto. Fausto è morto il 23 febbraio nella clinica di Bologna, da solo. Covid. A raccontare i giorni più difficili e a tenere i rapporti con la stampa e con chi lo amava ci hanno pensato i figli maggiori: Lorenzo, 25 anni, e Luca, 21. Ma nella narrazione di un uomo che ha dato così tanto al motociclismo è sempre mancato un pezzo. Ed è bastata una telefonata per capire che sì, Nadia Padovani aveva voglia di aprirsi e raccontare non il pilota, non il manager. Ma il fidanzato, il marito, il padre. Pochi giorni dopo l’abbiamo raggiunta nella sua villa appena fuori Imola. Ad aprirci il cancello c’era una bambina dallo sguardo vispo, curioso e i capelli lunghi e riccioli. E tu chi sei? «Agnese» ha risposto. Dieci anni, la più piccola di casa. Poi, sulla porta, Nadia, stivali, pantaloni e camicia nera. Poco dopo arriva anche Alice, top corto, jeans strappati, cellulare in mano e una faccia in cui convivono perfettamente timidezza e sfrontatezza, come è possibile solo a 15 anni. Eccole qui le donne di Fausto. Tutte insieme. Facciamo un giro per il piano terra, dai finestroni Nadia ci indica la piscina, il laghetto, la casa dei nonni e quella di Luca, tutte nello stesso terreno della villa. È una giornata senza sole, il cielo è limpido, il tavolo intorno al quale ci mettiamo è bianco e rettangolare. In qualsiasi punto rivolgo lo sguardo c’è Fausto. In un casco, in una foto di famiglia all’ingresso, insieme a tutti i nonni e i figli. In una foto dove c’è solo lui che fa un brindisi. In una coppa. Sulla copertina di un giornale. Ovunque. Lui non c’è. Eppure è lì. Chiedo a Nadia se vogliamo fare l’intervista davanti alle ragazze. Nadia fa sì con la testa. E cominciamo. Cominciamo dall’inizio.
«La prima volta che siamo usciti da soli siamo stati al fiume Santerno e quando siamo tornati in macchina i piumini che si erano attaccati al paraurti sono entrati in auto. In quella pioggia di piume ci siamo dati il primo bacio»
Tu e Fausto, dove vi siete conosciuti?
«Eravamo ragazzini, forse nell’87 quando lui ancora correva. Io già sapevo della sua esistenza perché i miei sono sempre stati patiti di moto. Mia madre lavorava in un caseificio, mio padre in un’azienda di Imola che faceva strade. Quando ero piccola mi portavano al circuito a vedere Ceccotto e Agostini e da ragazzina andavo con i miei amici sulla Tosa, ma era più che altro per star fuori la notte in tenda e goderci l’atmosfera in quel prato, la gara alla fine un po’ la guardavi e un po’ no. Capitava che la domenica mio babbo mi diceva: “Stai a casa che c’è Gresini che corre”. Ma va là, rispondevo. Volevo uscire con le amiche, ero giovane».
E invece…
«La prima volta che ci siamo visti è stato grazie a un nostro amico, al centro sociale La Tozzona, che era il bar dove ci trovavamo. Quando me l’ha presentato mi sono detta: ah ecco il famoso Gresini Fausto di cui tanto mi parlano i miei genitori. Fausto era un ragazzino un po’ piccolotto, forse non era nemmeno il mio ideale, però sai, il carisma, il modo che aveva di parlare, di scherzare, il suo essere sempre allegro e sempre attorniato da persone mi affascinavano. Di lui mi piaceva tanto il fatto che non fosse un montato, ma una persona normalissima, sempre umile. Abbiamo iniziato a uscire con un’altra coppia, andavamo spesso a mangiare una pizza, e lui era sempre circondato dalla gente che faceva la fila per avere l’autografo. E poi ad agosto dell’88 ci siamo fidanzati. Io avevo 21 anni, lui sei di più. Da lì non ci siamo più lasciati. Quest’anno sarebbero stati 33 anni insieme».
Una vita.
«Lì per lì non ci pensavo di farci una famiglia, ma stando con lui e seguendolo anche alle gare mi è sembrato molto affidabile. Avevamo entrambi caratteri forti, Fausto diceva che non avrebbe mai voluto una moglie accondiscendente, ma che la voleva rompicoglioni, un po’ stronza, capito in che senso?».
LA FAMIGLIA
Infatti aspettavo di trovarmi una donna provata, invece Nadia porta il dolore sulle spalle con grandissima dignità, è una donna tosta. Le bambine l’ascoltano in silenzio.
Così hai portato in casa dei tuoi il loro mito. Come l’hanno presa?
«Quando mio padre ha saputo che stavo con Gresini era contento ma preoccupato, i soliti discorsi: “È famoso, sai quante ragazze avrà”. Io ribattevo: eh se deve andare andrà. Ma ne era orgoglioso, si sono attaccati molto uno all’altro, mio padre ha trasmesso a Fausto la passione per la caccia. Lui amava pescare e non l’aveva mai presa in considerazione ma presto ha preso il porto d’armi e la licenza e insieme avevano formato una squadra per la caccia al cinghiale, uscivano la mattina, andavano vicino a Faenza e poi la sera tornavano e mangiavano insieme, avevano un rapporto come tra padre e figlio. Adesso mio papà sta malissimo».
Chiudi gli occhi. Qual è il primo ricordo che ti viene in mente?
«La prima volta che siamo usciti da soli, è stato bellissimo. Era appena tornato da una gara, era maggio perché c’erano i pioppi con i piumini. È arrivato con la sua Golf GTD bianca tutta tirata a balestra, aveva dato pure l’olietto sui paraurti per far risaltare il nero. Siamo stati al fiume Santerno e quando siamo tornati in macchina e l’ha accesa, siccome all’epoca l’aria che entrava in auto arrivava direttamente da fuori, tutto l’abitacolo si è riempito dei piumini che si erano attaccati sul paraurti. E in quella pioggia di piume ci siamo dati il primo bacio».
Qualche anno dopo il primo figlio, Lorenzo.
«Nel 95. Non eravamo ancora sposati, era felicissimo. Aveva smesso di correre da poco ma faceva faceva già il manager a Capirossi e quando tornava dalle gare prendeva il bambino di tre mesi e lo metteva sulle minimoto».
Poi Luca.
«Lui voleva una femminuccia, anche perché non pensavamo di farne altri. Poi nel 2001 ci siamo sposati, vivevamo in una villetta a schiera qui vicino, ma desideravamo una cosa tutta nostra, fuori da Imola, tranquilla, con il laghetto per pescare e la piscina, dove poterci sentire anche in vacanza, visto che di vacanze ne abbiamo fatte sempre poche. E abbiamo trovato questa occasione, era della Curie, abbiamo partecipato a un’asta e l’abbiamo ristrutturata. Ci è voluto del tempo. Lui era sempre in giro e io, che facevo l’infermiera, per stare dietro ai lavori mi sono messa in aspettativa per due anni».
Solo che nel frattempo sono arrivate anche loro due, Alice e Agnese.
«Eravamo già grandi, con la quarta lui era molto preoccupato di non riuscire a starci dietro e gli ho detto: se sono rimasta incinta è un segno, io la tengo, se vuoi starci bene, sennò pace. Ma quando è nata non ti dico… Fausto innamoratissimo, ha vissuto una seconda gioventù».
«Io gli dicevo: amore, sopporta. E lui, sotto quel casco terribile che gli dava l’ossigeno, mi rispondeva che sopportava tutto questo inferno solo per noi».
Nadia allunga il braccio sinistro e lo poggia sulla sedia accanto alla sua, vuota. Proprio sopra la foto di Fausto. Agnese corre in cucina, poi torna e dal niente se ne esce fuori con una richiesta: «Come mi piacerebbe ricominciare giocare a calcio».
A calcio?
Agnese: «Sì, ho iniziato pochi mesi fa e mi piace tantissimo».
E che classe fai?
Agnese: «La quarta».
Nadia: «Alice fa il liceo turistico, Lorenzo è un perito agrario ma adesso lavora nell’azienda di famiglia nell’area amministrativa, Luca invece ha smesso di studiare a 16 anni e ha iniziato a correre. Fausto ha creato il team del CIV per lui, anche perché aveva già i mezzi e non gli è costato più di tanto metter su la squadra. Luca voleva correre anche da bambino, ma a Fausto non è che gli piacesse tanto l’idea. Dalle minimoto è passato al cross e poi al quad. Mio padre gli aveva fatto una pista qui ma per lui è sempre stato un divertimento. Ho insistito io con mio marito per dargli davvero una possibilità e se avesse cominciato prima magari avrebbe avuto qualche chance in più. Adesso ha smesso e punta a fare il meccanico. Mi dicono che sia molto preciso».
Come vi compensavate come genitori?
«Io, stando con i bambini, sono sempre stata un po’ più nazi, cercando di tenerli in riga. Ma poi arrivava Fausto e soprattutto con le bambine rovinava tutto: "Amore mio, vieni che ti porto io a prendere tutto ciò che vuoi”. Era impossibile dargli delle regole e io mi incavolavo tanto. Lui poi se c’era qualcosa che non andava mica andava a dirglielo direttamente… No, veniva da me e mi chiedeva di fare la parte della cattiva».
Agnese: «Anche in una delle ultime videochiamate dall’ospedale gli ho chiesto una camera tutta per me, visto che Luca si è trasferito nella villetta qui accanto con la morosa, liberando la sua. E lui mi ha detto: “Che problema c’è? La facciamo”».
Nadia si emoziona: «Fausto aveva la canula endotracheale, per capirlo gli dovevamo leggere le labbra. E alla sua domanda le ha risposto: “Certo, puoi farti la cameretta nuova come ti pare”».
LA TRAGEDIA
Arriviamo lì, ai giorni dove la tragedia è cominciata. Chiedo a Nadia di raccontarmi tutto, dall’inizio. Quello che dirà è durissimo. «Fausto era stato a Bergamo a metà dicembre, secondo me il Covid l’ha preso lì. È tornato che aveva una tosse secca e si sentiva molto stanco, dava la colpa al fatto che aveva viaggiato tanto ultimamente e che la settimana prima di Natale era un momento piuttosto intenso per la chiusura dell’anno. Ma tutto sommato stava bene, è andato anche a caccia. Poi, sempre in quel periodo, in azienda un ragazzo è risultato positivo. Lui aveva programmato un tampone per il lunedì, però la domenica sera aveva già qualche linea di febbre, e infatti il martedì è arrivato l’esito. Ha cominciato la terapia a casa, con cortisone e tachipirina. Il 23 stava benissimo, il 25 sono venuti qui i medici dell’USCA, l’unità assistenziale della Regione, e hanno detto che a livello polmonare non aveva problemi, il livello di saturazione era a 93 e secondo le loro tabelle, se restava sopra i 90, non c’era da preoccuparsi. Poi il 26 è peggiorato, la febbre è salita a 38, 39… e il 27 la saturazione ha toccato quota 88. Quando ho avvertito i dottori mi hanno detto che dovevamo attivarci da soli e chiamare noi il 118, se lo sapevo l’avrei chiamato anche il giorno prima. Sempre il 27 dicembre è stato ricoverato d’urgenza a Imola e per due giorni è stato sotto quel casco terribile che gli dava l’ossigeno. Io gli dicevo: amore, sopporta. A lui veniva da piangere, e mi rispondeva che sopportava tutto questo inferno solo per noi. Il 29 mi hanno chiamato d’urgenza all’una di notte perché era peggiorato e lo stavano trasportando a Bologna. È rimasto in coma farmacologico dieci giorni, poi si è svegliato e sembrava che si fosse un po’ ripreso: facevamo le videochiamate, anche con fatica perché dovevano fargli la tracheotomia. Mi ricordo che un giorno i medici erano pure riusciti a metterlo a sedere su una poltroncina e lui ci ha chiamato: era fiducioso, ci ha detto che era andato vicino così a morire ma che adesso stava meglio e non vedeva l’ora che iniziasse a fare la fisioterapia. Poi ha avuto una serie di ricadute e ogni volta che i dottori lo svegliavano stava sempre peggio. L’ultima volta che l’ho visto sveglio non riusciva a muovere le dita. Lui se ne rendeva conto, mi guardava come per dire: dimmi qualcosa… Io gli dicevo di trovare le forze, di trovarle per lui e per noi ma lui mi faceva capire che non ne aveva più. Il venerdì prima che morisse, il 19, siamo andati all’ospedale Maggiore tutti insieme noi cinque. Ci hanno fatto indossare quegli abiti per entrare nel reparto intensivo perché volevamo vederlo, ma il primario aveva programmato una Tac al polmone e per fargliela l’aveva dovuto sedare. Che sfiga. Perché quando siamo arrivati, erano le due e mezzo di pomeriggio, preferiva tenerlo ancora in quello stato: dalla Tac si era accorto che la situazione era molto grave. È il mio più grande rimpianto. Lui giovedì si era risvegliato dal coma e voleva vedere i suoi figli, ma non riusciva a tenere il telefono in mano, non riusciva nemmeno a stringere le lenzuola. Il primario mi aveva chiamato per avvertirmi di venirlo a trovare ma i tempi non sono combaciati e non l’abbiamo visto. A ripensarci mi viene l’angoscia, sarebbe bastata una videochiamata e basta, poi da quel venerdì è stata una discesa terribile».
Ma voi potevate entrare nel reparto di terapia intensiva?
«Sì, qualcuno ha detto che potevamo farlo perché siamo ricchi o privilegiati, ma non è vero. Al Maggiore di Bologna possono entrare tutti i parenti stretti, basta che se la sentano, che rispettino le procedure e si vestano in modo adeguato. È una decisione che ha preso il primario per trasmettere più forza a chi sta lottando per non morire».
Poi cosa è successo?
«Un casino. Lunedì 22 alle 18.15 ci hanno chiamati perché avevano avuto il sospetto di un’emorragia cerebrale, confermata alle 22.30. Il chirurgo ci ha detto che non poteva essere operabile e che potevamo andare a Bologna a salutarlo perché le condizioni si stavano aggravando ulteriormente».
Questa è la notte in cui è stata data la notizia della morte e subito dopo smentita…
«Sì, mentre eravamo in auto qualcuno ha chiamato mio figlio, non so chi fosse, io ero dietro e avevo la testa per aria, però mio figlio mi ha raccontato che gli ha solo detto che stavamo andando all’ospedale “perché forse papà non ce la fa”. Dopo che siamo usciti dalla terapia intensiva sul telefono avevamo tutti un sacco di messaggi di condoglianze. La notizia è stata smentita anche dal primario che era ancora lì. Fausto è morto alle 10.02 del mattino. Questa è la verità».
«Mi mancheranno i giochi nel lettone, la lotta tutte le sere, i grattini sulla schiena e la gara a chi si metteva prima il pigiama» Agnese
Come si vive in quel periodo?
«Male. È stato terribile, arrivavo la sera che dall’ansia che avevo non respiravo neanche. Il giorno aspettavamo che ci chiamasse il primario, e se non chiamava gli scrivevo: per favore dimmi qualcosa perché dalla tensione non respiro. Accendevamo tutti i giorni delle candele vicino alle sue foto, ho affumicato tutta la casa, dicevo: se ci fosse Fausto qua mi sgriderebbe… Speravamo che a ogni chiamata corrispondesse un miglioramento, e invece…».
Chi vi è stato più vicino?
«Ivano Mancurti, il capotecnico della Moto 3, veniva sempre a casa, è molto legato a noi e a mio figlio Luca, con Fausto erano amici di infanzia. Del mondo moto anche Carlo Merlini e Fabrizio Cecchini del team, Carlo Florenzano, Loris Capirossi e tutti gli sponsor di mio marito, poi Melandri, Di Giannantonio, Alcoba, Martìn, Lorenzo Savadori. Sete Gibernau mi ha mandato degli audio. Sono stati davvero tanti, non vorrei dimenticare qualcuno».
Ci sono state polemiche anche sul funerale.
«Questa cosa mi fa ancora incazzare, per una persona che ha dato così tanto è ingiusto negargli un funerale decente. Avevamo organizzato tutto in sicurezza, con una entrata e un’uscita separate e gli ingressi frazionati, avevamo fatto la richiesta per 150 persone ma non è stato possibile. Lo abbiamo fatto comunque all’autodromo ma in venti».
Le ceneri?
«È stato cremato il 5. Quando mi daranno le ceneri le porterò sui monti sopra Faenza dove lui aveva la sua casa di caccia, è la sua volontà. Lui stava bene lì, dopo il primo lockdown la prima cosa che abbiamo fatto è stata organizzare una festa meravigliosa, ci abbiamo portato un gruppo musicale, un catering che aveva fatto la paella, il sushi e abbiamo invitato degli amici».
C’è qualche atteggiamento che ti ha fatto davvero male?
«Mi hanno ferito quelle persone che anche in una situazione così drammatica hanno detto delle falsità, che hanno pensato che noi siamo stati trattati con più riguardi perché Fausto era un personaggio pubblico. Non è mai stato vero, per esempio, che Fausto era stato portato via d’urgenza in elicottero o che veniva curato dagli stessi medici di Berlusconi».
Molti hanno fatto notare che Valentino Rossi non ha espresso condoglianze pubbliche.
«Con me nemmeno in forma privata, con i miei figli o con la squadra non lo so, ma non mi sono posta il problema. Non ho alcun tipo di risentimento».
IL FUTURO
Alice va e viene dalla stanza mentre Agnese corre tra la casa dei nonni e dove siamo noi, dalle finestre la vedo giocare con i cani: «Sono cinque, tutti bastardini, a parte quello di Luca che è uno springer e si chiama Scia perché voleva dargli un nome da moto. Il nero, Luna, è un incrocio tra un lupo e un labrador, poi c’è il piccolino Zoe, e quella bianca e nera cicciona l’abbiamo chiamata Jumba. Ah, c’è anche Lilly, che è vecchissima ed è la mamma di Jumba ma non si assomigliano per niente».
Cosa vi mancherà di Fausto?
Nadia: «Tutto».
Agnese: «I giochini nel lettone, la lotta tutte le sere e la mattina, papà mi faceva dei numeri sulla schiena e dovevo indovinarli, e poi mi faceva i grattini, oppure la gara a chi si metteva prima il pigiama. A me bastava pochissimo, lui ci metteva mezz’ora. Una volta gli ho chiesto un ovino Kinder e invece me ne ha presi quattro».
Alice: «A me manca anche solo vederlo a tavola, mi mancherà non andare più a Brno, dove mi portava sempre anche perché andavamo allo zoo lì vicino, insieme facevamo un sacco di cose. Se lo avessi qui davanti qui gli direi grazie per tutto, molte volte gli rispondevo male, adesso non lo farei più, e gli direi ti voglio bene perché non gliel’ho detto tante volte».
Nadia: «A me mancheranno tanto le sue feste, amava avere sempre gente a casa, amava fare le grigliate. Si metteva il suo bel grembiule e cucinava quello che aveva pescato. A dicembre si faceva portare delle trote e il primo gennaio invitavamo un po’ di amici, pancetta e uova a colazione per tutti e poi gara di pesca e una mangiata tutti insieme. La fortuna nella sfortuna è stata averlo vissuto durante il lockdown. Non era mai rimasto a casa per così tanto tempo, si metteva ai fornelli, potava gli alberi, tagliava l’erba, grigliava al barbecue. "Sai che mi piace stare a casa” mi ha confessato una sera. E in quei giorni mi ha detto che avrebbe fatto ancora cinque anni e poi avrebbe smesso per godersi di più la famiglia. Che peccato, se ci ripenso. Una volta era in aereo e mi ha chiamato piangendo: “Ho dei figli che oramai sono grandi e non so niente della loro vita”».
E invece cosa vi faceva arrabbiare di lui?
Agnese: «Aahhh le cose cambiate all’ultimo minuto per impegni improvvisi. Ti ricordi mamma quella volta che ti sei proprio incavolata?»
Nadia: «Sì, una cosa che mi faceva incazzare davvero era quando preparavo la cena, magari facevo qualcosa di particolare, e lui mi telefonava alle 8 e mi diceva: "Ah guarda mi dispiace, non posso venire, devo parlare con uno e vado a mangiare fuori"».
La vita frenetica del manager.
Nadia: «Quando ha smesso di correre non lo vedevo soddisfatto, con la nascita del suo team gli ho visto di nuovo gli occhi che luccicavano. Era entusiasta. Si è messo in gioco, ha rischiato sulla sua pelle, ha preso una 125, poi ha voluto fare il debutto in 500 con Barros, perché la 125 non gli bastava. Lui aveva questa cosa di vedere sempre avanti, ha sempre visto più avanti degli altri».
Anche come team Gresini avete affrontato momenti difficili, vedi la morte di Kato e di Simoncelli. Come ha vissuto questi momenti nel privato?
«Quando è successo di Daijiro era a pezzi. Kato era di famiglia, il suo bambino Ikko avrà avuto tre anni, la moglie aveva appena avuto una bambina, è stata una roba veramente pesante. Fausto ai piloti gli voleva bene come dei figli e ha fatto fatica a riprendersi, e quando è morto Marco la batosta è stata ancora più forte. Un dolore immenso. Ha passato dei giorni dove non aveva la forza di alzarsi dal letto, voleva finirla con le gare, Io gli dicevo: dai, Fausto, prova a reagire. E lui: “No, stavolta non ce la faccio”. Poi ce l’ha fatta. Ed è tornato più grintoso di prima».
Era molto esigente.
«Era un manager aziendale spaventoso. Pretendeva tantissimo, gestiva i rapporti con Aprilia in MotoGP e teneva in riga tutti i ragazzi della Moto3, della Moto2, della MotoE e tutti i piloti. Ora sono e siamo tutti un po’ spaesati. Abbiamo perso una guida, però sono sicura che tutti daranno il loro meglio seguendo il suo esempio».
Chi si occuperà del team?
«Ci siamo noi, gli eredi. Dobbiamo decidere tante cose, non è facile».
Qualcuno ha fatto il nome di Paolo Simoncelli.
«Sono voci che ho sentito ma non ho avuto alcun contatto diretto con Paolo, non so cosa dirti. Ci siamo visti al funerale e basta».
Melandri invece si è esposto pubblicamente: «Sono a completa disposizione».
«Lo so, me l’ha detto anche personalmente e mi fa piacere, è sempre stato molto legato a Fausto, però è tutto da valutare».
Fausto parlava spesso di lavoro in casa? Chiedeva suggerimenti?
«Dipendeva da lui, delle volte arrivava e ne parlava, altre volte preferiva di no. Ci diceva: “Raccontatemi la vostra giornata, cosa avete fatto, perché delle mie cose sono pieno”».
Adesso lo sognate?
Agnese: «Io sì, l’altra notte ho sognato che era vicino a me, mi sono svegliata di soprassalto e c’era un cuscino invece che lui».
IL CUSCINO
Saliamo le scale e percorriamo il corridoio dei ricordi: foto di quando Gresini era un pilota e coppe a riempire i mobili. Agnese va prendere il cuscino e ce lo fa vedere: c’è la foto di famiglia stampata sopra. Lo mostra orgogliosa. Poi corre fino in fondo, fino alla camera dei genitori. Sopra la testiera del letto c’è un foglio con una frase attribuita a Sant’Agostino. Questa: «Sono solamente passato dall’altra parte: è come fossi nascosto nella stanza accanto. Io sono sempre io e tu sei sempre tu. Quello che eravamo prima l’uno per l’altro lo siamo ancora. Chiamami con il nome che mi hai sempre dato, che ti è familiare; parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato. Non cambiare tono di voce, non assumere un’aria solenne o triste. Continua a ridere di quello che ci faceva ridere, di quelle piccole cose che tanto ci piacevano quando eravamo insieme. Prega, sorridi, pensami. La nostra vita conserva tutto il significato che ha sempre avuto: è la stessa di prima, c’è una continuità che non si spezza. Non sono lontano, sono dall’altra parte, proprio dietro l’angolo. Ritroverai il mio cuore, ne ritroverai la tenerezza purificata. Asciuga le tue lacrime e non piangere, se mi ami: il tuo sorriso è la mia pace». Nadia lo guarda e commenta: «Ad Agnese glielo faccio leggere spesso perché le ho detto che papà è sempre con noi, è invisibile ma con lui può continuare a parlare. Lei ha risposto scrivendo una lettera pazzesca, dicendo che dobbiamo andare avanti. E se qualcuno mi telefona e lei si accorge che sto per piangere mi chiama e mi dice di mettere giù subito». Quando scendiamo, ci rimettiamo allo stesso tavolo.
Cosa vi ha insegnato Fausto?
Alice: «A non mollare mai, a raggiungere gli obiettivi che ti sei prefissata. Era una gran persona, un grande papà. Io ho scelto di fare il liceo turistico per entrare in azienda e organizzare viaggi ed eventi».
Nadia: «L’onestà. Non aveva paura di dirti come stavano le cose perché era una persona pulita».
L’ultimo ricordo?
Nadia: «L’ultima volta che l’ho visto. Era molto debole, non riusciva ad avere la forza di combattere, mi rendevo conto che non ce l’avrebbe fatta e mi guardava come per chiedermi: “Sto morendo?”. Mi fissava, è stato bruttissimo».
«Mi sono fatta l’idea che se lo sono portati via perché lassù serviva un manager umile e bravo per fare un gran premio. Il Sic, Kato e tutti i piloti che sono diventati angeli avevano bisogno di lui e lo hanno chiamato»
Si è fatto tardi, arriva anche Lorenzo. Lui, Agnese e Alice si abbracciano. Terminiamo le ultime foto e poi Agnese e Nadia ci accompagnano al parcheggio. Mentre Agnese corre al cancello, rivolgo le ultime domande a Nadia.
Come si fa ad andare avanti?
«La forza la trovi, non so per quale motivo. Forse ce l’abbiamo dentro e ne attingiamo quando ne abbiamo davvero bisogno. O forse me la sta mandando lui. La forza è fatta di amore, sento la sua presenza e cerco di non fare errori».
Qual è il momento più difficile?
«La sera è terribile, perché qualsiasi cosa succedesse lui tornava sempre a casa. È il momento più duro. Quando andavamo a letto chiacchieravamo, gli piaceva guardare la tv, adesso abbiamo messo la sua foto dalla sua parte come se fosse ancora lì. Gli chiedo sempre di entrarmi nella testa, non so se sarà possibile, di darmi la forza di andare avanti, di darmi le sue idee. Fausto era tanta roba».
Cosa è la vita?
«Ti può dare gioie incredibili, ma in un attimo ti toglie tanto. Certo, litigavamo come tutte le coppie. Ma se potessi tornassi indietro mi godrei di più le cose futili che ti capitano tutti i giorni, come stare in piscina o andare a cena fuori solo io e lui».
Che rapporto hai adesso con la fede?
«Io ho pregato tanto, mattina, pomeriggio, sera e notte, e non è successo niente, quindi boh. Pregavamo tutti, amici, figli, parenti, così tante persone che mi dicevo: cavolo, qualcosa arriverà. Mi sono fatta l’idea che probabilmente se lo sono portati via perché lassù serviva un manager umile e bravo per fare un gran premio. Il Sic, Kato e tutti i piloti che sono diventati angeli avevano bisogno di lui e lo hanno chiamato».
Speri rivederlo in un’altra vita o nell’aldilà?
«Non lo so se dopo la morte ci sia qualcosa. So però che quando Fausto si è svegliato la prima volta dal coma mi ha detto di aver visto suo zio, a cui era legatissimo, che gli diceva: “Torna a casa immediatamente, non ti voglio più vedere, torna da tua moglie e tuo figlio”. Mentre me lo raccontava piangeva, aveva i lacrimoni. E quindi sì, quando morirò spero di rivederlo e di riabbracciarlo».