Politico e scrittore sammarinese, Marco Nicolini, ci ha subito tenuto a dire che con i motori ha sempre avuto un ottimo feeling: “Tutte moto sportive, le mie. Tre Honda e una Suzuki. Ho sempre guidato solo giapponese, ma adesso che ho i bambini sono più prudente”. E ancora: “Dopo vent’anni di bolidi nipponici – afferma – oggi comprerei una moto italiana”. Tra un lavoro in banca (responsabile delle relazioni esterne), un incarico istituzionale per San Marino (vicepresidente del consiglio d’Europa) e la famiglia, Nicolini ha comunque trovato il tempo di mettere insieme, per i tipi di Burno, una mastodontica chicca che ha fatto già ampiamente salivare numerosi appassionati di boxe. “Mille pugili” è una poderosa sventagliata di racconti, evocazioni, dati, eventi. Magia su carta. Mica facile quando devi scrivere di vite complesse, di biografie di atleti attivi in epoche ben precedenti all’era del web, quella in cui le news scorrono comode e consultabili lungo una Pacific Coast Highway dell’informazione. Presto, per Nicolini, anche un romanzo. “La boxe, in qualche modo sarà presente. Del resto bisogna scrivere di ciò che si conosce meglio, no?”.
Partiamo da “Mille pugili”. Definito una (necessaria) Bibbia della boxe, non è però il tipico manuale.
Si tratta di un lunghissimo viaggio nella boxe. Che forse nasce quando è esplosa la mia passione, corca 36 anni fa. Entrai in palestra, per la prima volta, nel tardo 1986. Iniziai a tirare di boxe: ero forte fisicamente, ma non avevo la testa giusta, non ho mai avuto la costanza necessaria per fare carriera. Però ero un avido lettore di qualsiasi cosa parlasse di pugilato, non solo Ring Magazine. Ero uno dei pochi a farsi arrivare le riviste specializzate dall’America. Poi cominciai a scrivere perché, attraverso quelle pagine che divoravo, conoscevo gli atleti, gli uomini, i campioni, e sentivo il bisogno di provare, a mia volta, a raccontarli. Più recentemente, ho fatto crescere online questa pagina di racconti pugilistici (“Nicolini racconta di pugili”, su Facebook) che in realtà conta più dei 117mila follower segnalati. Tutto questo ha prodotto “Mille pugili”. Mille atleti che sono la cronaca di una passione. Racconti, nozioni, la classifica dei migliori pugili “pound for pound”.
Alla luce di una storia tentacolare e avvincente, piena di curve e inversioni pericolose, possiamo dire ai ragazzi di oggi che il pugilato è ancora la nobile arte?
Guarda, il pugilato fa male. Nel senso che se sali sul ring per fare lo sbruffone il pugilato ti punisce. Impietosamente. Tanti pugili di livello dilettantistico se la sono cavata discretamente, non hanno subito conseguenze eccessive dai colpi subiti. Però ce ne sono altri – parlo di pugili con alle spalle carriere longeve, calibrate sui 12 round – che purtroppo si tirano dietro conseguenze evidenti, magari non parlano più bene, non sono più lucidi. Marvin Hagler ha smesso a 32 anni, ma era un esempio di limpidezza. Prichard Colón a 25 anni ha preso il pugno sbagliato e adesso è su una sedia a rotelle. Il pugilato può far male, c’è poco da fare.
Però parli come se il dolore del pugno – e le conseguenze di tutti i pugni di una carriera – da una parte fosse un severo monito per gli improvvisati, ma dall’altra non fosse comunque l’argomento giusto per ritenere la boxe un affare sconveniente.
Perché il pugilato ha sempre avuto un’innegabile funzione sociale. Ha salvato milioni di persone. Penso alle periferie di Città del Messico, di New York, ma anche di Milano o Roma, per rimanere in Italia. Milioni di persone che sudando e lottando su un ring si sono sottratte alla malavita, realizzando un sogno. Un sogno che però ha sempre implicato disciplina. Perché se tu non arrivi a combattere col fiato e la preparazione giusta, tre riprese possono essere già troppe.
Nonostante la violenza, la boxe è stata sempre innervata di suggestioni romantiche. Come i suoi protagonisti, che fuggono appunto dai ghetti o dai quartieri più deprivati per agguantare o sfiorare un trionfo che profuma di riscatto. Perché oggi la boxe non “tira” come ai tempi di Mike Tyson?
Mah, non credo sia meno seguita. Sono solo cambiati i tempi. Ora non c’è più un Tyson che sale sul ring e dà tutto sé stesso. Oggi tutti i pugili sono molto più consapevoli dei rischi che corrono. Di quella che può essere l’eredità pesantissima dei loro combattimenti. Così anche colossi come Tyson Fury o Anthony Joshua hanno una vista più strategica, più ponderata, sia rispetto ai propri sforzi fisici e mentali, sia rispetto a un sontuoso conto in banca da proteggere e tutelare. Probabilmente adesso lo spettatore rimpiange una boxe più incosciente e selvaggia, che però – per gli atleti – comportava un prezzo da pagare. Salato, il più delle volte.
C’è qualche pugile che ancora oggi ti riporta a quei tempi più selvaggi?
Dmitrij Bivol, mediomassimo russo. Il mio pugile preferito in assoluto. Ha così tanta fiducia nel proprio talento che vuole combattere con tutti e sconfiggere tutti. Bivol ha piena coscienza del proprio immenso talento, sa che prima o poi l’incontro lo vince. Potrebbe combattere nei pesi supermedi o medi, e quindi incassare pugni diversi da quelli che incassa nei mediomassimi, ma non gli interessa. Lui tira dritto e vince nei mediomassimi.
Ma Tyson un erede lo ha o no?
Direi di no. Ci sono stati altri “botolini” forti (un metro e ottanta per 100 chili). C’è stato David Tua, il neozelandese, che lo ricordava parecchio, ma il Tyson dei primi anni non l’ho più visto da nessuna parte. A 12 anni pesava 90 chili e non aveva un filo di grasso. C’è una foto di lui, a 16 anni, vicino a Lennox Lewis, all’epoca diciassettenne. Se avessero combattuto in quel momento, Tyson avrebbe distrutto Lewis. Poi con gli anni le cose sono cambiate, Tyson è stato battuto diverse volte, non solo da Lewis ma anche da Evander Holyfield. Il Tyson dei 21 anni era imbattibile, poi la galera lo ha fermato per 3 anni e in qualche modo si è calmato, è tornato senza quella spinta che gli davano le fibre giovanili.
Cambiamo campione. Floyd Mayweather ha fatto scuola?
Diamine se l’ha fatta. Persona sgradevolissima, ma ai pugili non si chiede di fare poesia. Lui doveva vincere e vinceva, con un colpo d’occhio unico. Da giovane aveva anche il pugno pesante. Forse Pernell Whitaker si avvicinava a quel livello.
Nel pugilato, in fondo, è sufficiente picchiare più forte dell’avversario?
Il pugilato è semplicissimo e difficilissimo insieme. Semplicissimo se pensi che chiunque, anche solo a istinto, capisce cosa serve per vincere: colpire più forte nel momento giusto. Difficilissimo perché ciò che devi provare a fare – schivare i pugni, attaccare, difendere, preparare un colpo –, quando affronti un avversario del tuo medesimo livello, può essere dannatamente complicato. Ecco, uno come Mayweather vedeva dal sopracciglio il pugno che gli stavi tirando. La boxe è uno sport di una difficoltà estrema nonostante ciò che un combattimento richiede sia quanto di più essenziale: colpire ed evitare di essere colpiti. Se un calciatore scende in campo e non è in perfetta forma, quel pomeriggio potrà comunque contare su altri dieci compagni di squadra. O magari potrà tentare di riscattare una prestazione opaca con un paio di giocate importanti. Il pugile è solo e sfida un altro atleta che, in genere, è alla sua altezza. Magari ci impiega sei round per capire che l’avversario non chiude perfettamente il gancio. Deve capire come entrarci, deve cogliere il punto debole dell’avversario combattendo e restando in piedi.
Su Instagram è apparsa una tua bella foto insieme al grande Loris Stecca. Qual è oggi lo stato di salute della boxe italiana?
Pessimo. Peggio di così, è difficile. Alle spalle abbiamo una storia eccezionale, ma ci stanno superando tutti. La Gran Bretagna sforna un talento al mese. Ero un tifoso di Devis Boschiero, un superpiuma. Nel 2011, a Tokyo, gli hanno scippato il titolo mondiale, un mancato (e giusto) trionfo che ha condizionato tutta la sua carriera. Oggi il professionismo, da noi, è un’impresa. Come fai a diventare un campione se sei costretto ad allenarti dopo 8 ore di cantiere? Sono pochissimi quelli che riescono a combattere da professionisti. E non credo che anche loro possano dormire sonni tranquillissimi: sanno che se non riescono a prendersi la borsa del prossimo match, saranno costretti a trovarsi un lavoro.
Credi che uno sport come la MMA – pensiamo a un Marvin Vettori – abbia sottratto talenti al pugilato?
Mah, non so quanto se la passi bene anche la MMA, a dirti il vero (sorride, nda). Può essere, però. Ma il pugilato è comunque uno sport storico, olimpico. I soldi veri, i 50 milioni di borsa, li prendono ancora gente come Fury o Joshua. Non per niente Francis Ngannou, campione di MMA, presto combatterà, come pugile però!, contro Tyson Fury (l’appuntamento è per il 28 Ottobre a Riyadh, in Arabia Saudita, nda). Prenderà un sacco di botte, ma oltre a quelle incasserà anche 15 milioni di euro, una cifra che con la MMA si sogna. È fortissimo eh!; però con Fury, a pugni, non ci sarà match. Il padre del “Gipsy king” era un campione di bareknuckle, la boxe a mani nude, un tempo molto diffusa fra i nomadi irlandesi. Nato settimino (pesava mezzo chilo), Fury adesso è alto due metri e otto centimetri e pesa 140 chili. Nel 2015 me lo sono trovato vicino, a Düsseldorf, in occasione di un match. Mai visto, dal vivo, un atleta così enorme.
Gli manca ancora qualcosa?
Può vincere contro chiunque, ma è inaffidabile, un pazzo scriteriato. È stato lui a far saltare il match contro Alexandre Usyk. Usyk è un fenomeno, viene dai medi, però contro Fury può giusto provare, eventualmente, a non prenderne troppe.
Parli di fenomeni e di grandi combattenti, ma chiudendo il cerchio – da un Tyson all’altro, per poi tornare a Mike –, ti chiedo: perché Mike Tyson lo conoscevano anche i sassi e Tyson Fury no?
Arriva un ventenne, dal nulla, di circa quindici centimetri più basso degli altri. Entra sul ring e gli avversari durano in media due round. Combatte con una tecnica mai vista, quasi obbligata dalla sua altezza limitata. Tirava questi ganci devastanti, da sotto, e il mondo si è fermato a guardarlo, non capendo bene come fosse possibile qualcosa di simile.