L’inizio, lo svolgimento e la fine parlano soprattutto di una cosa: di sconfitta. McGregor Forever è la docuserie Netflix dedicata al periodo più complicato della carriera dell’artista marziale irlandese Conor McGregor, uno degli atleti più discussi, pagati, idolatrati e odiati di tutti i tempi. Si comincia dall’epilogo: una caviglia fratturata, sguardo incerto sul futuro e voci in sottofondo che all’unisono evocano la definitiva caduta del Re. McGregor è un lottatore che ha fatto il suo tempo. Ha 32 anni (siamo nel 2021) e le sconfitte cominciano a essere tante. Dopo questa introduzione, però, si torna subito indietro, nel 2018: Conor è ancora campione dei pesi leggeri e pesi piuma, e lancia la sfida a Khabib Nurmagomedov, fenomenale lottatore russo ancora imbattuto in 26 incontri ufficiali. Il background non è dei più pacifici: a inizio anno, Khabib aveva avuto un alterco con un compagno di team di McGregor, il quale, in occasione di un successivo evento per i giornalisti, decise diplomaticamente di lanciare un carrello trasportatore contro il bus che trasportava i membri della squadra del lottatore russo. The Notorious fu condannato a pochi giorni di servizi sociali da svolgere in una chiesa di Brooklyn. Ad ogni modo, si giunse al tanto atteso incontro tra i due. Una delle conferenze stampa più infiammate della storia rese l’atmosfera ancor più elettrica: insulti, minacce, McGregor che si presenta in ritardo. Insomma, un pandemonio. Il match, ovviamente, non fu da meno. A spuntarla, però, fu Khabib, che ottenne così il ventisettesimo successo della sua incredibile carriera. Non contento, si lanciò tra la folla in cerca dei compagni del rivale, accendendo una rissa incontrollata per cui fu quasi squalificato e che vide coinvolto lo stesso McGregor, aggredito dal fratello del russo. Eppure, dopo l’infernale incontro, i toni della serie si abbassano immediatamente. L’aggressività e il testosterone del primo episodio vanno scemando nel secondo: Conor sconta la sua pena, passa il tempo con la famiglia e racconta di sé, della sua infanzia passata in un quartiere popolare di Dublino. A Crumlin, così si chiama il quartiere, la MMA è praticamente sconosciuta e il lottatore sembra destinato a vivere la sua vita facendo un lavoro normale. Inizia come idraulico ma fin da subito capisce che la divisa sta troppo stretta. Comincia a lavorare sodo e ottiene numerosi successi in incontri professionistici di medio livello. Nel 2013 arriva la grande chiamata: la UFC di Dana White. Conor si infrange come una tempesta sulla scena e ottiene in quattro anni due titoli di campione del mondo in due diverse categorie di peso. La parte “formativa” della serie, però, è comunque molto limitata. Non si guarda al passato in McGregor Forever.
Il terzo episodio racconta del tentativo di rinascita dopo anni complicati: nel 2019 Conor aveva annunciato il ritiro e, dopo una vittoria a inizio 2020, il lottatore irlandese era stato costretto a fermarsi a causa della pandemia di Covid. Breve parentesi umanitaria, in cui “chi ha più deve fare qualcosa per chi ha di meno” e di nuovo, nel 2021: “Eyes on the Prize”. “McGregor è bollito?”, si chiedono in molti. Forse hanno ragione: l’incontro con Dustin Poirier, ex sfidante del campione del mondo dei pesi leggeri, finisce con una sconfitta. The Notorious non si dà per vinto: riprende gli allenamenti e supera un grave infortunio alla caviglia, che lo ferma per alcune settimane. Nel giugno 2021, è previsto un rematch tra i due. Dopo un inizio di incontro promettente, la caviglia non regge la tensione e si spezza, sancendo il KO tecnico e l’ennesima sconfitta per McGregor. Negli ultimi tre anni: tre sconfitte e una sola vittoria. Il sole è tramontato? L’ultimo episodio fornisce la risposta: assolutamente no, il lottatore di Dublino non ha intenzione di mollare. Nel 2023, anche se la serie non ce lo dice, è programmato un incontro con Michael Chandler. La data è ancora da destinarsi, ma McGregor Forever sembra costretta ad avere un sequel.
McGregor Forever delinea i tratti di un’ossessione: quella per la lotta, per l’adrenalina, per la voglia di ribaltare i pronostici. McGregor non ha più bisogno di soldi. Più volte le voci del suo entourage ci ricordano come la stabilità economica, per lui e svariate generazioni, sia ormai raggiunta. Ciò che spinge The Notorious a combattere è qualcosa di diverso. Una voglia quasi incontrollabile di lottare, aggredire l’avversario, tornare a casa pestato e sanguinante dai propri figli, che nel 2021 sono già diventati tre. “Perché farlo? Perché continuare?” La stampa non si dà pace. Anche gli ammiratori sembrano voler suggerire a Conor di smettere. Non vogliono vedere il loro eroe diventare un perdente. Qui sta proprio la grandezza di McGregor: lui non ha paura di perdere, non ha paura di vedere scalfita la sua leggenda. Non teme la sconfitta, anzi, la aspetta come parte integrante della sua ascesa futura. Continuare a combattere per amore della guerra. Per noi che guardiamo è incomprensibile, l’esempio di una testardaggine incurabile. “Hai ancora voglia di perdere, Conor?” Lui risponderebbe di sì. “Io lo faccio per la passione”. È una frase scontata, certo, ma non sembra una menzogna. La decisione di continuare è solo sua: in tutta la serie, di lavoro di squadra si parla ben poco. In fondo, ammette lui stesso, “at the end of the day it’s a solo journey”. A spezzarsi le ossa sull’ottagono c’è lui: non i suoi preparatori, non i medici e neanche la moglie, interpellata pochissimo nel corso della narrazione. C’è lui, da solo contro l’avversario. Avversario che talvolta diventa nemico. Con le provocazioni, l’arroganza, le urla e gli sputi che hanno reso iconico il suo personaggio. McGregor Forever racconta un’ottusità che sfiora la follia, la storia di un uomo che proprio non capisce quando è arrivato il momento di farsi da parte. A tratti retorica (gli episodi potevano tranquillamente essere 3), la serie è un’eterna ripetizione dello stesso motivo: “Perché, Conor? Basta!”. Peccato che da buon irlandese, con una risata degna del miglior Joker e con occhi sbarrati di fronte a una folla in fiamme, McGregor risponde sempre la stessa cosa: “I’m gonna go on the ring to spill his blood: my time is yet to come”. Il ciclico fallimento di chi non si accontenta di un posto nella storia.