Delle quattro sconfitte del 2025 di Carlos Alcaraz, quella subita al primo turno di Miami è la più dolorosa. Perché lo spagnolo in Florida è andato in vantaggio dopo un primo set combattutissimo, in cui ha controbreakkato istantanemente l'avversario prima di conquistare il parziale sulle ali di un entusiasmo e di un gioco strabordante ritrovato. E poi perché l'avversario era David Goffin: trentacinquenne belga, numero 55 al mondo, una settima posizione come best ranking risalente al 2014, un tennis solido, d'esperienza, ma carente di chissà quali effetti speciali o di qualità fisiche esagerate. Insomma non certo Novak Djokovic, che da vecchio lupo aveva eliminato Carlos in Australia due mesi fa, non certo Jiri Lehecka - giovane rampante che sul veloce di Doha aveva sorpreso il numero tre del mondo - non certo Jack Draper, giustiziere di Alcaraz nelle semifinali di Indian Wells, dove il giorno dopo avrebbe alzato al cielo il trofeo del vincitore.
7-5 4-6 3-6 in quasi tre ore di partita. Carlos inizialmente sembrava in giornata, una delle tante in cui gioca sulle righe, tira vincenti di controbalzo, scaglia passanti coi piedi quasi sui seggiolini del pubblico, che lo applaude anche quando produce qualche svarione, a cui Alcaraz ripara prontamente con un sorriso tutto autoironia e divertimento. Eppure in questo venerdì in ufficio di apparente normalità, lo spagnolo si è perso in un bicchiere d'acqua: solitamente i campioni, dopo un primo parziale sudato ma vinto contro un avversario inferiore, ingranano una marcia killer in avvio di secondo set, quando mettono in cascina il vantaggio per aggiudicarsi il match in relativa tranquillità. Invece Goffin da una parte ha avuto il merito di fare tutto ciò che era nelle sue corde per infilzare le unghie nel tessuto della partita e restarci aggrappato, dall'altra Alcaraz gli ha facilitato il compito, cercando il proprio miglior tennis con giocate leziose, spesso deleterie. La più lampante sul quattro pari quindici-quaranta del secondo set, momento delicatissimo: Carlos serve bene e ha il campo aperto per salvare il primo break point bucando Goffin con un dritto lungolinea, ma sceglie di giocare una palla corta in cross che per il belga è golosa come un pasticcino su piatto d'argento. Ci arriva agilmente, coglie l'opportunità ghiotta, se ne serve per andare a vincere il parziale.
Da quel momento in poi la fiducia di Alcaraz nei propri mezzi si è sfilacciata. Carlos ha smesso di ragionare, ha smesso di prendersi tempo tra un punto e l'altro, ha smesso di divertirsi, colpendo la pallina a testa bassa come se fosse preda di un'incombenza fastidiosa da terminare al più presto. Il coach Juan Carlos Ferrero, dalle tribune, gli urlava di lottare e combattere su ogni punto, cosa alla quale Alcaraz non si è mai sottratto: gli mancava però un sistema, un piano B, una tattica che gli consentisse di riordinare le idee ed evitare di gettarsi con foga a rete sperando negli errori di Goffin, che ha sempre tirato passanti chirurgici. Il terzo set è scivolato via così, 3-6 in un flusso spasmodico e arruffato di vincenti prepotenti e gratuiti incomprensibili.
Indecifrabile è questo avvio di stagione dello spagnolo, capace di tutto: di dominare in un momento e di sparire in quello successivo, di sentirsi fisicamente carente contro un avversario tredici anni più anziano, dopo una settimana di soli allenamenti. Nessuno, nel tour, possiede un tennis imperioso e allo stesso tempo fragile come il suo. Solo che Alcaraz non trova equilibri, vie di mezzo: non esistono partite sporche, vinte giocando maluccio. Fa tutto da solo, è tutto o niente. Nel momento della carriera in cui Carlos dovrebbe raccogliere di più, si aggroviglia nelle incertezze tattiche e non riesce a trovare rifugio nel suo ventaglio infinito di sicurezze tecniche. Chissà che non riesca a ritrovarsi sull'amata terra rossa, superficie che offre più tempo per ragionare.