Oleksandr Usyk è il nuovo campione del mondo WBA, WBO, IBF, IBO dei pesi massimi, dopo aver sconfitto il favorito, nonchè campione in carica, Anthony Joshua. La vittoria dell’inglese, infatti, era data quasi per scontata. Ma che Oleksandr Usyk rappresentasse il futuro degli heavyweight noi lo avevamo già detto, sempre alla vigilia di un incontro sul suolo inglese avvenuto lo scorso ottobre alla Wembley Arena di Londra in cui poi ebbe la meglio contro Dereck Chisora.
Il 31 ottobre. Una giornata con un’aura tutta sua, tra trucchi splatter e ragnatele finte, ma l’Halloween di questo 2020 si prospetta un incrocio di necrologia e dissacrazione. I bambini che fanno trick or treat possiamo scordarceli che c’è il coprifuoco. Potremmo invece ritrovarci le strade in fiamme, con il Reparto Celere a lanciare lacrimogeni e centinaia di ragazzi coi caschi integrali che contrattaccano, a colpi di cinghie e sampietrini.
Per quanto mi riguarda, me ne starò sul divano a godermi il match dell’anno di pugilato categoria pesi massimi: Usyk vs Chisora. Non ci sono titoli in palio, visto che i campioni dei massimi al momento sono Anthony Joshua e Tyson Fury, ma si percepisce che da questo incontro potrebbe venir fuori il prossimo heavyweight king. Per me, il vincitore sarà l’ucraino Usyk.
Ma chi è Usyk?
Oleksandr Usyk dovremmo ricordarcelo tutti, in realtà.
Alle Olimpiadi di Londra del 2012 batté in finale Clemente Russo con una prestazione strabiliante, aggiudicandosi la medaglia d’oro dei massimi. Quattro anni prima, a Pechino 2008, era stato Clemente a vincere ai quarti proprio contro Usyk. Ma a Londra Oleksandr era à un pugile nuovo: taglio di capelli discutibile, movenze feline, finte e rapidità di esecuzione. Quando annunciarono i tabellini di Londra, con Clemente che alzava il pugno verso il pubblico, Usyk in contemporanea ballava l’hopak, la tradizionale danza ucraina. Aveva già vinto così.
Che sia un pazzo, in effetti, lo si capisce: i suoi occhi azzurri sono chiodi nei polsi durante una crocifissione, il suo sorriso con quello spazio vuoto tra gli incisivi è inquietante. Può far ridere quando balla e scherza, quando sminchia le parole in inglese nelle interviste o si fa il selfie con Chisora in conferenza stampa vestito alla Undertaker, ma allo stesso tempo sembra un assassino psicopatico.
Nato a Sinferopoli in piena Crimea dura, nel gennaio 1987, dopo un lungo cammino nella boxe amatoriale (335 vittorie, 15 sconfitte) approda ai professionisti nel 2013, nella categoria di peso dei crusierweight, quelle belve con il limite di peso di 91,7 kg. Uno degli ultimi re della categoria è stato un certo Evander Holyfield. Sì, quello coi baffi, che ha mandato KO Tyson e s’è fatto pure staccare un orecchio da Iron Mike.
Dal 2013 in poi, Usyk non ha mai perso. È diventato campione del mondo per la prima volta nel 2016, con la sigla WBO. Poteva fare come fanno tanti nel pugilato: scegliersi gli avversari, combattere col contagocce, godersi il titolo.
“Io volevo tutto. Quando a Londra stavo con la medaglia d’oro al collo, pensavo già ‘che obiettivo posso raggiungere ora?’, perché mi sentivo vuoto” dice in un’intervista a Sky Sports.
Adagiarsi non è per Oleksandr. Lui, che da piccolo vendeva frutta e verdura raccolta nelle campagne, lui che portava al pascolo il bestiame per qualche allevatore locale, ha fame. Usyk vuole unificare le sigle WBO-WBA-WBC-IBF, le quattro sorelle del pugilato professionistico. Ciò significa sconfiggere i campioni delle altre federazioni, essendo lui il detentore solo del titolo WBO. Sembra una campagna di guerra, più che un obiettivo.
Batte tutti i campioni che detenevano il titolo di cruiser: Huck, Briedis, Gassiev, Bellew. Vince il trofeo Muhammed Alì, a suggellare l’impresa di UNDISPUTED cruiserweight champion of the world. È il campione indiscusso.
“Tanta gente andava contro di me. Mi dicevano che non ce l’avrei fatta, che ero troppo piccolo. Non li ho mai ascoltati. Solo mio padre mi diceva sempre che sarei diventato un pugile, e io in realtà quando lo diceva lui non ci credevo molto, ma ci provavo. Ora sono qui in cima, e sono qui soltanto grazie a papà, ma non combatto per i soldi, per la fama, per sentirmi dire che io sono un grande: la verità è che io amo la boxe.”
Ultimamente ho visto una storia su Insta del mio amico Banhoff. Intervistava Marcel Swann, fotografo totale. Ad un certo punto Swann parla di una sua passione che non è le fotografia, in cui si sente anche bravo ma che non pompa sui social.
“Non c’è bisogno che uno faccia cose per diventare pro, le devi fare prima per te le cose, perché ti dà gusto” dice Swann.
Ecco, la mentalità è quella. La cosa bellissima è che un fotografo toscano e un pugile ucraino dicono la stessa roba potente. Fallo per te, sia che diventi un pro sia che resti una passione. E non ascoltare chi ti butta fango in faccia: spesso chi lo fa non capisce niente.
Mi ricordo di quando giocavo a pallone. Era il 2011, ero fuori tempo massimo per diventare il difensore centrale dell’Inter, ma volevo continuare col calcio. Firmai per una squadra locale, campionato allievi provinciali. Era ottobre e avevo 16 anni, la squadra era già sedimentata, non avevo fatto la preparazione estiva. Ero panchinaro fisso, quasi fuori rosa. Tutti mi dicevano di lasciar stare.
“Torna a giocare a calcio a otto, Lorè, così almeno sei titolare”.
“Oh frà ma chi cazzo te la fa fare di andare agli allenamenti, vieni a farti le bombe con noi in piazzetta buchibuchi”
Col cazzo. Rimanevo nel post allenamento a dribblare conetti, a calciare in porta. Giocavo 4 volte a settimana a calcetto, anche due partite di fila la stessa serata. Sotto le feste di Natale, invece di farmi il capodanno con gli amici a ubriacarmi, andai in Casentino dai miei nonni e stetti 10 giorni ad allenarmi con la squadra locale di prima categoria, il Pratovecchio.
Prima partita del girone di ritorno, il mister mi mette dentro perché uno dei centrali, Marco, aveva l’influenza.
“Men’ Lorè”, mi disse il capitano e compagno di reparto Davide “Dall’nguedd!”.
Non sbagliai nulla. Chiudevo le diagonali perfettamente, saltavo senza mettere le mani addosso agli avversari, entravo pulito. Da allora, diventai titolare.
Bisogna crederci, e spingere. Usyk ci ha creduto e ha spinto, perché dopo aver riunito le cinture da cruiser, decide di passare nella categoria dei Pesi Massimi, dove non ci sono regole su quanti chili puoi portarti addosso. Un salto difficile: un conto è gareggiare con gente che ha la tua stessa struttura fisica, un altro in una categoria dove non ci sono limiti. Tra i massimi becchi gente che pesa 120 chili, con allunghi improbabili.
Nonostante questo, Usyk vincerà il match contro Chisora.
Vincerà, perché in un mondo dello sport esibizionista, dove i calciatori sbocciano a fine stagione ad Ibiza e McGregor si fa prendere a cazzotti da Mayweather solo per avere più soldi, Usyk si prepara al match in isolamento col suo team in un casale nella periferia di Kiev. C’è una cappella ortodossa dove va a pregare. “È l’unico posto dove sono tranquillo” dice Usyk.
Si allena, mangia, dà da mangiare ai cavalli, pesca. Dorme su un letto in paglia e legge l’arte della guerra prima di dormire.
Vincerà perché non tira solo ganci e montanti al sacco. Usyk, come diversi altri atleti ucraini, integra la tecnica pugilistica con sessioni di danza, di nuoto, di tennis, di calcio, di basket e pure di esercizi per implementare la logica e rapidità di pensiero. Interdisciplinarietà motoria. Ogni movimento aggiunge qualcosa di nuovo che gli permetterà di essere dinamite sul ring. Lui tra le corde è un diavolo, sfugge e salta, colpisce duro al corpo, conduce il gioco.
“La difficoltà maggiore,” dice un suo sparring partner “è che Oleksandr ti induce a sbagliare. Ti fa colpire come vuole lui, così ti contrattacca”.
31 ottobre 2020, 10PM GMT (ore 23:00, nel nostro Paese), Sky Sport. Oleksandr Usyk vs Dereck Chisora. Il killer di Sinferopoli torna sul ring. Con quegli occhi da pazzo, con quell’ironia sagace che lo contraddistingue nelle interviste.
Sarà bello dimenticarsi per 12 round dei DPCM, di Conte, delle proteste, di noi cristiani senza contratti e senza tutele. Sarà bello sognare di essere lì, a bordo ring, aspettando il colpo perfetto che mandi al tappeto l’avversario
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