Valentino Rossi entra in un ristorante, ordina un piatto di pasta al pomodoro e un bicchiere di Coca Cola (il suo pasto-tipo, almeno a leggere alcune interviste) e finisce squalificato perché in quella pasta o in quella bevanda c’era una sostanza considerata dopante. Oppure, Marc Marquez si fa preparare la pizza dal fratello Alex (ci stava bene anche il biscotto da Jorge Lorenzo, ma siamo buoni) ma nella farina utilizzata si scopre essere presente un principio contenuto nell’elenco delle sostanze considerate dopanti. Risultato? Valentino Rossi o Marc Marquez (scegliete voi in base alle preferenze) squalificati. Dibattito, gogna mediatica e poi, giustamente, processo sportivo, con una sentenza che afferma che nessuno dei due poteva sapere di aver ingerito quella sostanza.
È esattamente questo, ciò che è capitato a Andrea Iannone, almeno stando alla verità processuale, con la differenza che Iannone s’è beccato una squalifica pazzesca e che non gli è stato dato modo di discutere l’appello in tempi sportivamente (e umanamente) accettabili. Cosa sarebbe successo se al suo posto ci fossero stati, appunto, Valentino Rossi o Marc Marquez? Siamo certi che le cose avrebbero preso tutt’altra piega… e ben altre tempistiche.
È notizia di ieri, infatti, che l’appello presentato dai legali del pilota di Vasto non sarà discusso dal TAS prima del 15 ottobre, con la WADA (l’agenzia mondiale antidoping) che da mesi ormai sta facendo slittare l’udienza, generando il sospetto di voler difendere un principio (quello sacrosanto della lotta al doping) ignorando completamente il merito. Perché la sentenza che ha condannato in primo grado Iannone per 18 mesi riconosce la non volontarietà dell'assunzione, da parte del pilota, considerandolo però responsabile di non aver immaginato che in una bistecca mangiata in un ristorante malese potessero esserci contaminazioni.
Magari un minimo di pena ci stava pure, ma i 18 mesi sono sembrati a tutti, da subito, decisamente troppi. La difesa ha quindi giocato la carta del ricorso in appello, con la nuova sentenza che doveva arrivare entro l’estate e che invece ora, per volontà della WADA, che ha chiesto uno slittamento (e che ha anche presentato ulteriore ricorso in appello chiedendo un inasprimento della pena fino a 4 anni di squalifica), arriverà alle porte dell’autunno.
Inutile dire che per Andrea Iannone la stagione sarà a quel punto completamente finita, mancando una manciata di gare al suo termine, e che, per lo sportivo, oltre che per il suo team, il danno non sarà di poco conto. Ne ha parlato, ieri, anche Massimo Rivola, CEO di Aprilia Racing: “L'agenzia Antidoping Mondiale è riuscita a ottenere lo slittamento dell'udienza al 15 ottobre, mettendo così in grandissima difficoltà sia noi sia il pilota. Crediamo nell'innocenza di Andrea, vogliamo aspettarlo, anche se corriamo un grande rischio".
A rischio, però, c’è la credibilità di un intero sistema, impantanato su una questione di principio. Perché, diciamolo chiaramente, nessuno ci toglie dalla testa che questa vicenda abbia preso questi contorni assurdi e grotteschi solo perché il protagonista è uno che, suo malgrado, risulta a molti tutt’altro che simpatico e che guida una moto considerata di “serie B”. Ma lo sport non è la televisione e quello che conta dovrebbe essere, almeno fino a prova contraria, il manico. Il manico e basta. E Andrea Iannone, di manico, ne ha da vendere.
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Immaginate, anche solo per un momento, come sarebbe questo mondiale qui, con un Andrea Iannone in più. Un un pilota che ha quella cattiveria nel polso, quella spregiudicatezza nell’approcciare le gare, un pilota che, adesso più che mai, tra Covid, mezzomondiale e incertezze dovute alle gomme, avrebbe fatto un gran bene all’intero Circus.
A questo si aggiunge l’aspetto umano. Provateci voi, comuni mortali, a immaginare di trovarvi nel mezzo di una vicenda simile: entrare in un ristorante, sedersi, mangiare e poi scoprire di aver ingerito qualcosa che conteneva una sostanza proibita e, per questo, finire in un angolo sul posto di lavoro. Sapendo, tra l’altro, che la carriera di uno sportivo non è eterna.
Se è vero, come è vero, che bisogna stare alle verità processuali, gli ulteriori processi sulla volontarietà o meno dell’assunzione di determinate sostanze da parte di Iannone non dovrebbe neanche minimamente sfiorare il dibattito. C’è una sentenza che dice che non lo ha fatto coscientemente e che non poteva sapere. A quella bisogna attenersi. Ed è anche scientificamente dimostrato che quel tipo di sostanza non avrebbe arrecato alcun vantaggio in termini di performance ad uno che di mestiere fa il pilota di motociclette (l’elenco delle sostanze dopanti è comune a tutti gli sport).
E su, dai! Ridateci Iannone in pista, già da questo Mondiale, e non chiedete ai piloti di andare in giro con un laboratorio di analisi chimiche al seguito. Perché se è questo quello che si pretende, significa che la bistecca è superata da un pezzo e che ormai siamo davvero arrivati alla frutta.