32 anni fa, era il 24 marzo 1990, su un palco approntato in Piazza Santi Apostoli a Roma vennero installati undici pupazzi della mascotte di Italia 90, Ciao, a incorniciare una lapide sulla quale campeggiavano 16 nomi: “Questa squadra non parteciperà ai Mondiali”, era la scritta a caratteri cubitali che la sovrastava. Si trattava di una manifestazione di Fillea Cgil intitolata “Per non morire di lavoro”, e i nomi erano quelli di 16 persone decedute nei cantieri delle opere del Mondiale italiano. Il computo finale avrebbe fatto registrare 24 morti e 678 feriti tra stadi e opere collegate, ma la memoria selettiva ci ricorda solo le “notti magiche”. Ecco, non aspettiamoci una manifestazione di qualche sindacato in Qatar, sebbene le inchieste – prima fra tutte quella pubblicata a febbraio 2021 dal Guardian – e i report indipendenti parlino di qualcosa come oltre 6500 lavoratori, in gran parte migranti del sud-est asiatico, morti nei dieci anni di lavori per consentire alla Fifa di crogiolarsi nel gigantismo del “miglior Mondiale della storia”, come l’ha definito il presidente Gianni Infantino. Del resto il numero uno dell’ente che governa il calcio globale è l’oste che magnifica il vino e, se accenna al rosso, casomai parla di tannino, non di sangue. Di frasi squalificanti ne ha dette parecchie, ma dall’antologia ne segnaliamo due. La prima: “Quando dai lavoro a qualcuno, anche in condizioni difficili, gli dai dignità e orgoglio”, come dire pazienza se poi il lavoratore crepa. La seconda, a precisa contestazione sul numero dei morti: “La Fifa non è la polizia del mondo o responsabile di tutto ciò che accade. Ma grazie alla Fifa, grazie al calcio, siamo stati in grado di affrontare lo stato di 1,5 milioni di lavoratori in Qatar”. Qui il riferimento è all’abolizione nel 2020 del sistema della kafala (in pochissime parole: una sorta di schiavitù lavorativa), istituto effettivamente riformato in Qatar, ma siamo ancora lontani da livelli socialmente accettati, e allora ecco la chiosa, sempre infantiniana: “Queste polemiche hanno sicuramente oscurato la preparazione”, al punto che il comitato organizzatore riconosce appena qualche decina di decessi nei lavori di costruzione. Non solo, perché negli ultimi giorni, sempre Infantino, ha scritto alle 32 nazionali che giocheranno in Qatar sollecitandole a mettere da parte le questioni relative ai diritti umani: "Pensate al calcio e lasciate fuori le idee".
Perché il manovratore non si disturba, dove girano miliardi di dollari. Lo possono fare alcune testate particolarmente attente e solide, lo possono fare gli svedesi di Blankspot con le loro Cards of Qatar (un progetto collaborativo di grande impatto che ha realizzato una collezione di card con le storie di alcuni dei lavoratori morti), non lo faranno di certo i media rights holder, i cui racconti favoriranno la narrazione prediletta dal Qatar – l’accordo dell’aprile 2021 tra l’Ansa e l’ambasciata del Qatar a Roma fece scalpore per qualche giorno, complice un affettuosissimo articolo rimosso dopo le polemiche, poi si spense l’eco – mentre, per quanto riguarda i dirigenti delle varie federazioni partecipanti, è difficile attendersi particolari critiche. Qualche distinguo tuttavia ci sarà, perché un’enorme visibilità provoca la capacità dei riflettori di illuminare, senza volerlo, anche parte delle zone d’ombra. Ma leggeremo principalmente – già accade – di esperienze esotiche, della capacità di attrazione turistica, della straordinaria ospitalità del Qatar. Tutte cose anche vere, peraltro. Vere, ma il lato oscuro – memorabile questa copertina della rivista tedesca Elf Freunde – riflette molto meno.
Boicottaggi? Ovviamente nessuno. Per ora il più originale arriva dal birrificio scozzese Brewdog che ha tappezzato il Regno Unito di cartelloni pubblicitari in cui lo slogan “First Russia, then Qatar. Can’t Wait for North Korea” (e cioè: “Prima la Russia, poi il Qatar: a quando la Corea del Nord?”) si chiude con un claim altrettanto sarcastico, che fa il verso ai “proud sponsor of” tanto cari alla Fifa: “Proud antisponsor of the World F* Cup”.
Per il resto, tante chiacchiere per nulla, indignazione a basso costo e facile resa: fanno abbastanza sorridere le decisioni di alcune città francesi che per protestare non autorizzeranno maxischermi, o la terza maglia nera “colore del lutto” della Danimarca (ma andatela a vedere: loghi e fregi tono su tono ci sono tutti e non sparisce nulla, come nella prima maglia rossa: chiamiamolo shirtwashing, visto che non è un regalo), che comunque la Fifa gli ha già vietato di usare, oppure le fasce arcobaleno che qualcuno indosserà in nome dei diritti Lgbtqi+, o ancora i messaggi di questa o quella nazionale o di questo o quel calciatore nei mesi scorsi, perché poi chi si è qualificato ci va e lì penseranno tutti a giocare e a vincere, com’è naturale che sia. E in fondo forse è meglio così: sono, siamo, tutti fuori tempo massimo, considerando che l’assegnazione del Mondiale al Qatar data 2010, vale a dire dodici anni fa. Dodici anni nei quali non è che la condizione di Stato autocratico del Qatar fosse ignota, dodici anni nei quali i report di Amnesty International sui costi umani dell’organizzazione non sono mancati, dodici anni nei quali si è scoperta la corruzione sottostante il processo di assegnazione del Mondiale stesso. Beh, benvenuti nel “miglior mondiale della storia”.