L’omosessualità? In Qatar è haram, e cioè vietata, proibita, per questo “tutti quelli che verranno qui saranno accettati, ma dovranno rispettare le nostre regole”: Khalid Salman, già calciatore e oggi ambasciatore del Mondiale di Qatar 2022, in un’intervista al network tedesco Zdf ha detto a chiare parole ciò che non è un mistero, e cioè che, in tema di diritti umani, il Paese che ospiterà di qui a pochi giorni la Coppa del Mondo è tutt’altro che progressista. Nulla di nuovo, e in fondo non è che, parlando di diritti LGBTQIA+, andasse molto meglio quattro anni fa in Russia, ma le parole di Salman sono pietre che lapidano la scelta della Fifa e, insieme, demoliscono i messaggi arcobaleno della massima istituzione del calcio. Già, perché saranno anche “le mie idee”, come spiega Salman, ma sostenere che l’omosessualità sia “un danno psicologico” (dice testualmente “damage in the mind”) e che, tra i suoi aspetti negativi, ci sarebbe la capacità di insegnare ai giovani “qualcosa che non è buono”. E che è illecito, appunto haram.
Benvenuti nel Mondiale dei diritti che non ci sono. Non che sia la prima volta (Argentina 1978 e Russia 2018 non dicono nulla?), tuttavia in questa occasione il potere del denaro non copre, almeno alla vigilia, tutta una serie di magagne – un’assegnazione tutt’altro che trasparente, le inchieste sulle migliaia di morti nei cantieri per le opere costruite per il grande evento, i comportamenti vietati e i diritti negati – conseguenti all’aver portato la più iconica vetrina del calcio internazionale in un Paese autarchico, il Qatar appunto, che Freedom House ha definito “not free” nell’edizione 2022 del suo indice Freedom of the World. Toccherà ai giornalisti presenti in loco fare il loro mestiere, andare oltre il calcio, oltre l’ospitalità opulenta, scavare, inchiodare la Fifa alle proprie responsabilità e svelarne, nel caso, le ipocrisie.
Intanto, però, un ragionamento in più si può fare seguendo i soldi, andando insomma a guardare la provenienza dei denari delle laute sponsorizzazioni di un evento che, proprio per l’enorme visibilità e il contesto, può rendere controversa la scelta di un abbinamento commerciale. Come è accaduto alle Olimpiadi di Pechino, sotto l’aspetto dell’immagine proiettata, infatti, esserci può rivelarsi un problema, per determinate aziende e per i valori che sostengono di veicolare.
I 23 sponsor ufficiali del Mondiale, sia regional sponsor che global sponsor, hanno i rispettivi quartieri generali in dieci stati diversi, due soli dei quali europei: Brasile, Cina, Germania (Adidas), India, Messico, Singapore, Corea del Sud, Svizzera (Hublot), Stati Uniti e ovviamente Qatar. Non ci sono sponsor russi a causa delle sanzioni seguite alla guerra in Ucraina, e del resto diverse aziende occidentali che hanno in passato legato il loro nome alla Coppa del Mondo (Continental, Castrol, Johnson & Johnson) non avevano rinnovato gli accordi con la Fifa già in occasione di Russia 2018, altro Mondiale discusso in tema di diritti civili: non è un caso, allora, che oltre un quarto dei proventi da sponsor – 1.4 miliardi di dollari, secondo Global Data – arrivi da aziende cinesi e che, sommando quelle cinesi e qatariote, si superi la metà della cifra degli accordi commerciali.
Tra gli sponsor – servizi bancari, criptovalute, automobili, vettori aerei, orologi, bevande: c’è ovviamente di tutto – il caso più singolare è quello della statunitense Budweiser, che prevede di vendere più birre in un mese di torneo che in un intero anno in Qatar. Logico, se si pensa che il consumo di alcol è vietato ai musulmani (ed è proibita anche la pubblicità degli alcolici), ma chi arriverà in Qatar – rappresentanti dei media, atleti e tecnici, tifosi – potrà trovare la classica bottiglia da 330 ml in vendita a un prezzo di circa 11 dollari, stando a quanto riportato da Bloomberg.
Anche per questo, allora, c’è chi si è inventato una forma di advertisement antagonista: il birrificio scozzese Brewdog ha tappezzato il Regno Unito di cartelloni pubblicitari in cui lo slogan “First Russia, then Qatar. Can’t Wait for North Korea” (e cioè: “Prima la Russia, poi il Qatar: a quando la Corea del Nord?”) si chiude con un claim altrettanto sarcastico, che fa il verso ai “proud sponsor of” tanto cari alla Fifa: “Proud antisponsor of the World F* Cup”, si legge. Ora, la campagna ha oggi una visibilità che ha superato i confini della Gran Bretagna, tuttavia non è tutta resistenza quella che grida: nei propri pub, Brewdog ha confermato l’intenzione di trasmettere ugualmente le partite del Mondiale, contribuendone alla visibilità, e alcune testate hanno messo in evidenza come, in passato, anche Brewedog sia stata criticata per le condizioni dei propri lavoratori e avrebbe tuttora in corso un accordo per l’esportazione e la distribuzione dei propri prodotti proprio in Qatar. In fondo, sotto accusa, c’è sempre il capitalismo degli altri.