Solo il calcio, anche se solo per brevi periodi, può portare a capovolgimenti semantici così repentini. Così, dopo che il Marocco è stato capace di qualificarsi alle semifinali del Mondiale in Qatar (e resterà nella storia per essere stata la prima nazionale africana a finire tra le prime quattro), a giudicare da ciò che si legge in giro oggi siamo tutti, o quasi, marocchini. Magari verrebbe da sorridere a gente come Pino Daniele che trent’anni fa, in ‘O scarrafone, ricordava che “marocchini” erano i meridionali per quelli del nord (“Io son stato marocchino / me l’han detto da bambino / viva viva o’ Senegal”), o al Jovanotti dello stesso periodo, ancora non santone, che in Io no se la prendeva con “qualcuno che va alla messa / e si fa anche la comunione / e poi se vede un marocchino per strada / vorrebbe dargliele con un bastone”.
Testi, quelli, che raccontano un po’ dell’Italia del tempo, quando i migranti stranieri degli anni Ottanta e inizio Novanta erano in gran parte marocchini e la diffidenza era tutta per loro, e in evoluzione di quella odierna, in cui la comunità marocchina resta la più numerosa. A maggior ragione ora con le seconde generazioni (e in certi casi le terze) che sono nate qui, vanno a scuola, fanno sport, instaurano amicizie disinteressate con i nostri figli e a questi, soprattutto a quelli più piccoli, in questi giorni (visto che gli azzurri non ci sono, in Qatar, così come non c’erano in Russia) stanno mostrando quanto si possa essere orgogliosi di una nazionale e quanto si possa godere per un Mondiale. Bambini come poteva essere qualche anno fa il centravanti Cheddira, nato a Loreto, uno dei miti di quelli che a scuola vanno con le maglie di Hakimi e Ziyech, che sono in piazza coi padri quando c’è da festeggiare, perché loro lo fanno come lo farebbero gli italiani se ci fosse la squadra di Mancini.
Ecco, ciò non significa che vada tutto bene. Tralasciando l’aggressione di Verona alcuni giorni fa in occasione della festa per la qualificazione del Marocco ai quarti (e senza allargare lo sguardo a Bruxelles o Parigi), non è tutto amore ciò che c’è in giro, e occhio anche a non dare troppa importanza a un terzomondismo spesso retorico che qui abbonda. Eppure il Marocco in semifinale piace, in qualche modo è cool: si tratta di una sorpresa, dell’underdog che si fa beffe dei pronostici, in qualche modo di una rivalsa dei Davide contro i Golia veri o presunti (Belgio, Spagna, Portogallo), di sicuro del successo dell’approccio dell’arte di arrangiarsi sfruttando le proprie migliori caratteristiche e di abbattere così l’inutile vanità di chi si specchiava nel ranking Fifa (Belgio secondo, Marocco ventiduesimo), l’onanismo dei palleggiatori di Luis Enrique, l’appuntamento col destino che pensavano di avere i lusitani dell’ultimo Cristiano Ronaldo iridato. Illusi, tutti quanti. Il bello dello sport, e della vita, è qui.
Allora si parla e ci si finge esperti del calcio africano, quelli che l’avevano sempre detto e quelli che non se lo sarebbero mai aspettato, senza magari tenere in considerazione che 20 dei 26 convocati dal ct Regragui giocano in Europa, che in Europa 12 sono nati e questi ultimi, insieme a Sabiri che si trasferì in Germania a tre anni, hanno una formazione calcistica europea: il calcio iperglobalizzato riunisce in nazionale (anche grazie alle diverse politiche di cittadinanza) atleti che giocano campionati diversi, spesso fuori dalla propria nazione, che magari si trasferiscono da un Paese all’altro con una certa frequenza e che, comunque, nel corso della carriera sono venuti a contatto con una varietà di stili di gioco (e compagni, allenatori, staff) che li hanno resi più simili gli uni agli altri, in un ecosistema in cui tutti sanno tutto di tutti. Il Marocco insomma è una sorpresa, ma non un miracolo.
E non è nemmeno un miracolo che tanti tifino Marocco oggi, anche qui, forse pure per un retaggio culturale. A Italia ‘90 il Camerun era la seconda squadra di ogni italiano, così come il Senegal nel 2002. Erano underdog come il Marocco di oggi, e nella mente di chi non si rende conto che il gioco ormai è simile dappertutto, il retaggio di cui sopra è quello di considerare, in fondo, il calcio africano come il buon selvaggio del gruppo, perché la narrazione questa è e si tratta di uno sguardo ancora difficile da decolonizzare. Il calcio, però, è già oltre.