Reduce dall’addio al calcio di Zlatan Ibrahimovic, che è già un duro colpo a livello emotivo, stamattina il milanista medio si sveglia e viene a sapere che Paolo Maldini e Frederic Massara lasceranno la società rossonera. Così, senza preavviso, senza una nube all’orizzonte, senza che venga preparato minimamente al distacco. Se infatti la carriera sportiva dell’attaccante svedese era ormai oltre gli sgoccioli, i due dirigenti lavoravano a Milanello da meno di cinque anni ed erano reduci da un campionato vinto lo scorso anno, dalla qualificazione di Champions e dall’aver portato la squadra tra le prime quattro in Europa quest’anno. Una formazione, va ricordato, che sulla carta se la dovrebbe giocare al massimo per il settimo-ottavo posto e per superare a fatica in gironi di coppa e invece ha stupito tutti. E il milanista medio, cioè quello che non va in curva a cantare novanta minuti, non si dipinge la faccia con i colori del club e si arrampica sui lampioni di Piazza Duomo a Milano per festeggiare le vittorie e non prende la malattia al lavoro per un derby perso con l’Inter, bè, quel tifoso lì, che sarebbe bene non dimenticare rappresenta la stragrande maggioranza, stamattina lo immaginiamo incazzato come una iena.
Perché il tifoso medio non intrallazza con la società per avere i biglietti gratis o le trasferte pagate, non ha interessi vari legati al club - dal merchandising alla gestione delle curve (interessi legali e non, le sentenze dei tribunali passate in giudicato sono lì a dimostrarli) - non dedica la maggior parte del tempo a scrivere sui social peste e corna degli arbitri, degli avversari e della Juve (chi non è juventino odia sempre un po’ la Juve). Il tifoso medio è quello che si abbona prima a Sky e ora a Dazn e magari si dimentica di seguire qualche match perché ha altri impegni (ma intanto paga), quando deve fare un regalo acquista la felpa di Natale con i colori sociali o la t-shirt da gara per la propria fidanzata (ormai fa figo, la usano anche le influencer), spedisce la tazza rossonera al genitore per la festa del papà, quando va allo stadio paga sempre e tantissimo rispetto al servizio che gli viene erogato, quando la squadra perde mette il muso qualche ora e poi è pronto a tornare a sostenere i propri colori e se si vince riempie le piazze delle città, ma non coglie l’occasione per spaccare le vetrine e le auto. Cosa c’entra tutto questo con la fine del rapporto lavorativo di Maldini (soprattutto) e Massara?
C’entra eccome. Perché il profilo del rossonero tracciato - ma vale per ogni squadra - è quello che meno ha voce in capitolo su tutto, eppure è lo stesso che crea il maggior profitto per una società. È quello che tramanda il tifo di padre in figlio. Che trasmette i valori positivi dello sport attraverso la filosofia del club che si è formata negli anni, grazie a sconfitte, vittorie, bandiere, gesti e parole dei protagonisti del gioco più diffuso al mondo. Questo supporter se ne frega delle dinamiche societarie, dei bilanci, delle sponsorizzazioni, dei progetti o delle speculazioni sullo stadio (che sembrerebbe l'unico vero obiettivo della proprietà per poi rivendere al miglior offerente), di come vengono scelti i calciatori, se con gli algoritmi o gli osservatori sul campo. Insomma, al tifoso rossonero interessa far parte di una realtà che abbia una identità, che lo faccia sentire parte di qualcosa che lo accoglie e condivide e che può aiutarlo a sopportare le delusioni quotidiane e avere qualcosa di cui gioire come fosse un regalo. Altrimenti non si spiegherebbe perché le persone tifano squadre che non hanno mai vinto nulla. Il perché è proprio lì, nell’identità che hanno saputo sviluppare, che è più forte dei risultati, dei bilanci e dello stadio.
Per queste ragioni, a partire da stamattina - e si spera per i giorni a venire - il milanista medio dovrebbe passare dall’incazzatura all’indignazione e tradurla in una protesta concreta. Come? Non rinnovando l’abbonamento allo stadio, non progettando di andare a vedere nessuna partita dal vivo nella prossima stagione, smettendo di acquistare merchandising e persino non confermando l’abbonamento alle piattaforme streaming. Non serve a nulla andare sotto la sede con i fumogeni, non cambia una virgola nelle decisioni il minacciare fisicamente o via social il proprietario del club o inscenare sit-in di fronte a Milanello. In un mondo dove contano soltanto i soldi è sui soldi che bisogna scioperare. Perché la decisione del proprietario del Milan Gerry Cardinale (in 35 minuti di colloquio) di chiudere il rapporto con Paolo Maldini, con tutto quello che il cognome Maldini si porta appresso per in colori rossoneri, oltre agli indiscutibili risultati sul campo, negli acquisti e nella valorizzazione dei calciatori, è come spazzare via in un solo colpo l’identità di un club tramandata da 100 anni. Ma il tifoso medio è in grado di avere questo sussulto? Difficile. Ma sarebbe rimasto ormai l’unico gesto davvero efficace per arginare la deriva del calcio alla stregua dei videogames.