“GodBye”, con questo gioco di parole la curva del Milan ha salutato Ibra, tra cori e lacrime, addirittura le sue, non solo quelle del pubblico, la consegna di una maglia autografata e incorniciata che non indosserà mai, lui che si è lasciato andare agli occhi arrossati e a frasi commosse in stile aforisma da Bacio Perugina (“La prima volta che sono arrivato al Milan mi avete dato la felicità, la seconda volta che sono venuto qui mi avete dato amore”), piuttosto singolari per uno che ha sempre giocato, in maniera comunicativamente molto coerente peraltro, sul restituire di sé l’immagine di un semidio del pallone, del battagliero integro e incazzoso, dell’uomo che non deve chiedere mai. Zlatan Ibrahimovic ha detto addio al campo e San Siro gli ha tributato onori da leggenda, e chissà nel profondo cos’ha pensato Paolo Maldini, lui “milanista per sempre” per davvero (così sì è dichiarato lo svedese), se magari è tornato a quel giro di campo di 14 anni fa, quando arrivederci a San Siro lo disse lui. Quando, mentre la stragrande maggioranza dei presenti pianse per la fine di un’epoca, qualcuno non perse l’occasione per rinfacciargli di essere una persona libera, di non dover per forza dire ciò che piace ad altri. Pace, è tutto in prescrizione ormai.
Ibrahimovic, a proposito di gente che ha sufficiente denaro e autorevolezza per essere libera, la storia del Milan l’ha fatta senz’altro, e magari continuerà a farla sotto altre vesti, chissà. Una bandiera? Lo decidono i tifosi rossoneri, in fondo spetta solamente a loro e non certo ad altri, perché le emozioni e l’attaccamento a un calciatore non si calcolano in numeri. In questo senso pare proprio di sì, è giusto che sia così e pazienza se il Milan, alla fine dei conti, non è nemmeno il club nel quale Zlatan ha disputato il maggior numero di partite o segnato più reti (è il Paris Saint-Germain, ma come si fa a legarsi al Paris Saint-Germain odierno?). Conta, piuttosto, che dopo il Milan non ci sarà nessun altro, e pertanto non ci potrà essere tradimento.
Poi, magari, vale la pena guardare agli ultimi vent’anni e considerare che, parlando solo dell’Italia, Ibrahimovic ha giocato e vinto in annate tutt’altro che banali anche con la Juventus (quella poi distrutta da Calciopoli, i cui titoli non ha mai rinnegato, anzi) e con l’Inter pre-Triplete, e ciò significa che, a turno, è stato tifato e idolatrato dalla stragrande maggioranza degli appassionati di calcio del nostro Paese. Allo stesso modo, quando ha scelto poi di vestire le maglie di squadre irriducibilmente antagoniste di quelle con le quali aveva giocato in precedenza, la sua figura è stata detestata dagli stessi supporter che lo avevano adorato. Paradossalmente Zlatan è stato il capobranco e l’idolo di tutti, almeno una volta, e questo significa che in fondo è stato una bandiera soprattutto di sé stesso, del suo modo di essere, con il suo portato simbolico inconfondibile e iperbolico, in cui il vero si scioglie nel verosimile, in una figura decisamente originale in un calcio di automi da conferenze stampa ed emozioni di plastica.
La sua grandezza è proprio qui. Oltre alle italiane e al Paris, ha vestito a inizio carriera anche le maglie di Malmö e Ajax, quindi quella del Barcellona di Guardiola e del Manchester United di Mourinho, s’è concesso pure la parentesi americana a Los Angeles, nei Galaxy, sufficientemente hollywoodiana nello spirito: tantissimo ha vinto, qualcosa di pur pesante no (i fuoriclasse della Play gli ricordano di non avere mai alzato la Champions, ma è più curioso che con lui la Svezia, di cui è il miglior marcatore, non abbia mai ottenuto né un alloro né un piazzamento a podio), parecchio ha segnato, senza dubbio molti di quei gol, per non parlare degli atteggiamenti, si faranno ricordare. E tanto basta.