Klopp è un chirurgo. Manca un tassello e lo va a pescare: Wijnaldum, Mané, Salah e Robertson, Allison e Van Dijk
Era il 1990.
Microsoft lanciava Wndows 3.0.
Al cinema usciva l’ultimo film di Fellini, La voce della Luna.
A Cape Canaveral partiva la Columbia, un navicella con 5 astronauti a bordo.
Dopo la caduta del muro, McDonald's apriva a Mosca.
Nelson Mandela veniva liberato dopo 28 anni di prigionia.
Il Liverpool diventava Campione d’Inghilterra per la diciottesima volta.
Mondo, 30 anni dopo.
Apple lancia iOS 14 e a breve la dodicesima evoluzione dell’iPhone.
Le auto elettriche circolano per le strade.
Un virus chiamato SARS-CoV-2 mette in ginocchio il pianeta terra.
Saltano gli Europei. Saltano le Olimpiadi.
Quarantena. Ci si vede solo attraverso uno schermo, in videochiamata. Si fa lezione a distanza e puoi andare in bagno quando vuoi. Tutti promossi.
Boris Johnson dice che gli inglesi si devono abituare a perdere i propri cari. Poi si ammala. Cambia idea.
Saltano i campionati nazionali.
Poi riprendono.
La mascherina diventa il nostro preservativo obbligatorio. Un lasciapassare quotidiano.
Tutti di nuovo in campo. Il Liverpool diventa Campione d’Inghilterra per la diciannovesima volta. Ma si ha la netta sensazione che questa squadra non dovrà attenderne altrettanti anni per alzare di nuovo al cielo il trofeo della Premier League.
Una squadra così perfetta, una macchina precisa, deliziosa, funzionante, estremamente potente e decisa. Un prodigio del calcio moderno, allenata da un mago chiamato Jürgen Klopp. Il tedesco è vestito di rosso dal 2015, ma ha cominciato dall’inizio solo quattro stagioni. E da subito ha messo le sue mani sopra i giocatori, donando un imprinting unico. Carattere, energia, offensività, fame. Tanta fame. Una produzione offensiva devastante, una scacchiera sempre in continuo movimento così da non poter fornire indizi alla squadra avversaria che è costretta a indietreggiare, girare a vuoto per il campo, prendere un Moment e subire, subire, subire in continuazione, finché non arriva il gol. E una volta centrato l’obiettivo, non cambia nulla. Si gioca. Si continua a macinare, a correre, a lottare, a inventare. Senza sosta. La macchina perfetta di Klopp nasce da prima di questa stagione. Nasce dalla costanza, dalla dedizione, dalla ricerca continua che ha messo dentro il progetto dei “Reds” di rilanciarsi dopo la scottante, devastante, umiliante sconfitta contro il Chelsea di Mourinho del 2014. La partita dello scivolone del capitano, della bandiera, del monumento Steven Gerrard. Da lì, serviva un cambio forte e determinante. Ed è stato scelto un uomo colto, ma umile, sapiente e affamato, giudizioso e pressante, maniacale e folle. Un uomo che è riuscito a portare il Borussia Dortmund a vincere due Bundes consecutive (nel 2010/2011 e 2011/2012) e di arrivare in finale di Champions League (2012/2013) portando al massimo quella squadra che poi verrà, quasi del tutto, smantellata.
Al Liverpool è tutto nuovo ed è tutto da ricostruire. Tranne la sua tana, Anfield. Quando si parla del Liverpool e dei suoi successi un protagonista da citare è sempre quel luogo magico che è lo stadio dei Reds. Un posto mistico, quasi religioso, che fa emozionare tutti quando con solenne rispetto e amore i tifosi del Liverpool cantano a ogni match You' ll Never Walk Alone. E infatti, soli, non lo sono mai stati, neppure quando le cose andavano male, malissimo. Klopp ha riportato il Liverpool in Champions e poi in finale nel 2017/2018, cosa che mancava da dodici stagioni. Un’infinità per una squadra così vincente, così potente per il calcio. E quella finale finì tra le mani di pasta frolla di Karius e le sue papere da oratorio. Klopp, però, è un puntellatore. Un chirurgo. Manca un tassello e lo va a pescare. Da Wijnaldum a Mané, da Salah a Robertson, passando per Allison e Van Dijk. Giocatori che non hanno accesso le fiamme dell’opinione pubblica e nemmeno degli addetti ai lavori, ma che hanno, insieme, portato a Klopp quello che serviva: una squadra forte, intelligente e che rispondesse ai suoi comandi, ai suoi stimoli. Nessuno avrebbe dato un euro a Virgil Van Dijk. Nessuno si sarebbe aspettato una crescita così netta, clamorosa, verticale. È insuperabile. Sa fare tutto, anche gol. Allison è Spiderman e ai Reds un portiere così serviva come l’ossigeno. Salah e Mané hanno corsa, tecnica, estro, fantasia, dedizione. Hanno tutto. Poi il capitano, Henderson. Tutto cuore e polmoni, ma anche tattica, ordine, calma. L’erede di Gerrard, e non è una bestemmia. Per niente. E poi lui, Roberto Firmino. Il giocatore più altruista, ma allo stesso tempo quasi machiavellico, geniale, a tratti sin troppo avanti per essere compreso del tutto, un attaccante atipico, come è atipica la sua carriera se pensate che è stato scoperto da un dirigente tedesco mentre giocava a Football Manager, altro che app di machine learning e statistica.
Una produzione offensiva devastante, che non fornisce indizi alla squadra avversaria finché non arriva il gol
Tutto ruota perfettamente sotto la direzione solida e robusta di Klopp che ha saputo scoprire uno dei terzini destri più forti della storia del calcio inglese, nonché uno dei migliori al mondo. Alexander Arnold che fa più assist di un centrocampista, batte i calci piazzati come un veterano e corre come un maratoneta olimpionico. Lui, insieme ad Allison, Van Dijk e Robertson sono i veri creatori del gioco del Liverpool. Perché la manovra parte bassa, bassissima. È da lì che si aprono i primi spazi e con ritmo, corsa e idee si aprono spazi che nessuno avrebbe nemmeno pensato potessero esistere. L’intelligenza tattica, unita alla dedizione, al pressing senza soluzione di continuità, alla produzione costante di occasione, ti permette di diventare la squadra più forte, pericolosa, temibile e bella da vedere del mondo. E quindi ecco la strabiliante vittoria in Champions League della scorsa stagione dove i Reds hanno annichilito il Barcellona, ad Anfield, per 4-0 recuperando i tre gol di scarto dell’andata e vincendo quasi agilmente contro gli Spurs in finale. Poi arriva la stagione 19/20, nella quale il Liverpool in sostanza non cambia nulla, se non gli obiettivi. Ora il bersaglio è quello grosso, quello che manca da tre decenni. La squadra di Klopp vince 18 partite consecutive prima dell’arrivo del Covid-19. Mostruosi. La mentalità è sempre la stessa. Continuare a macinare gioco. Fino alla fine, fino alla morte, fino all’obiettivo che poi, finalmente, arriva. Con sette giornate d’anticipo sulla conclusione naturale della Premier League, il Liverpool è di nuovo Campione d’Inghilterra e la sensazione, a differenza degli ultimi - e lontani - successi europei sotto la direzione di Benitez, è che qui si sta aprendo un ciclo devastante per tutte le altre squadre. Una sorta di maledizione calcistica che incombe sull’europa. Il carisma, l’energia, le idee di Klopp applicate da una squadra che nei singoli non è la migliore del mondo - perché al netto di Van Dijk - qualcuno di migliore si può trovare, ma è la sinergia, la filosofia, l’affiatamento, la composizione artistica e ingegneristica di questa squadra che è irripetibile, fenomenale e destinata a tanti altri successi, in patria e fuori.
Ah, un’ultima cosa: in questo momento vorremmo, però, essere tutti LeBron James. Il cestista dei Lakers aveva investito nei Reds 6,5 milioni di dollari nel 2011, circa il 2%. Oggi, la stessa partecipazione, vale quasi 50 milioni. Y-o-u-ll- N-e-ve-r- W-a-l-k- A-l-o-n-e.