Seduto tra le dune del suo deserto Carlos Sainz dimostra, forse per la prima volta, la sua reale età. Ha 60 anni, è stanco, ferito, deluso. Gli è sempre piaciuto combattere, ancora più che vincere, e questa Dakar - la diciassettesima della sua infinita e dominante carriera nel panorama del rally mondiale - gli ha permesso di combattere meno di quanto si sarebbe aspettato, o di quanto avrebbe sicuramente voluto.
Iniziata con il piede giusto, crollata quasi subito sotto al peso di problemi tecnici, sfortune e imprevisti, l'ultima impresa nel deserto de El Matador si è interrotta tra le fatiche di una nona tappa mai conclusa. Aveva già capito di non poter vincere nei giorni precedenti, quando un incidente nel venerdì di gara lo aveva costretto a interrompere la sesta tappa, accumulando un ritardo dalla vetta impossibile da colmare. Il giorno seguente si era poi, con il fidato navigatore Lucas Cruz, messo a disposizione dei colleghi Audi Ekström e Bergkvist per aiutarli a riparare la vettura, offrendo ricambi e sperando di ottimizzare le possibilità che almeno un'Audi, quella degli svedesi, lottasse per il titolo 2023.
Lo sapeva, che il successo non sarebbe arrivato per loro, ma non importava. La Dakar è anche questo, è soprattutto questo. Correre nel deserto significa andare incontro a imprevisti e caso, fortuna e tragedia, e reagire. Interrompere una tappa sapendo che non sarà possibile recuperare ma continuare a correre comunque, sempre, dando tutto.
E così, nonostante gli imprevisti, Carlos Sainz continuava a sembrava il ragazzo crudo e magnetico che è sempre stato. Un uomo fatto per studiare ogni possibilità, per analizzare e prevedere, e poi per correrci sopra come se niente importasse più dell'emozione e dell'adrenalina. Ha continuato così, El Matador, fino all'incidente che ha cambiato ancora una volta la sua storia d'amore con il deserto: ad appena cinque chilometri dall'inizio della nona tappa Sainz ha preso una duna ad alta velocità e riprendere il controllo della macchina, in fase di atterraggio, è stato impossibile. Il muso in un attimo ha puntato pericolosamente verso il basso e la vettura si è ribaltata, restando immobile nel mezzo del mare rosso sabbia dell'Arabia Saudita.
Sainz e Cruz escono immediatamente, visibilmente doloranti, e riescono a rimettere sulle ruote un'Audi ammaccata ma in qualche modo - almeno all'apparenza - intera. Si assomigliano in quel momento, macchine e uomini, uomini e macchine. Feriti, interi, fermi tra le dune di un deserto che non contiene la propria fine. Carlos si appoggia all'Audi, si copre gli occhi con le braccia e poi si mette a sedere, controllato a vista dagli uomini presenti sulla scena. Eccolo lì, nei suoi 60 anni di lotte e avventure. Stanco, malconcio, che fatica a respirare e soffre di un dolore alla spalla che spaventa.
Non sembrano esserci altre possibilità e così Sainz, suo malgrado, accetta di essere trasportato in elicottero verso l'ospedale di Riyadh. Poi, la follia del Matador. Lui che ha sempre voluto fare le cose a modo suo, che nella vita ha ripudiato chiunque non accettasse il suo modo di vedere le cose, il suo desiderio di essere un pilota in un mondo, quello della sua infanzia in Spagna, dove il rally non era seguito, dove suo padre lo voleva avvocato, dove tutto sembrava andare in una direzione contraria ai suoi sogni. A metà viaggio verso Riyadh Sainz cambia idea e fa tornare indietro l'elicottero: vuole rimettersi in pista.
Non ha finito il suo viaggio, non ha concluso la sua avventura. Carlos torna da Lucas Cruz e insieme attendono l'assistenza per cercare di far ripartire la vettura. Conclusi i lavori si rimettono alla guida, prendono la via della strada asfaltata e accettano l'ennesima penalità per tornare al bivacco di Haradh e completare le riparazioni. Solo lì, al centro del sogno, la notizia che non possono controllare: troppi danni, troppi problemi accumulati nei giorni e troppa forza nell'impatto finale per pensare di ripartire. La loro Dakar finisce.
Carlos Sainz, 61 anni da compiere il prossimo 12 aprile, tre Dakar vinte in carriera, due volte campione del mondo rally, leggenda vivente del mondo dei motori, si ferma. Ha l'età che dimostra, dimostra per una volta l'età che ha. Ferito, piccolo nel deserto di chi sta ancora combattendo, di chi vincerà, di chi taglierà il traguardo anche in ultima posizione. Ma mortale, non più giovanissimo, non più invincibile, Sainz non è mai sembrato così forte come in questa edizione. Combattivo fino alla fine, stoico nel dolore fisico e abbattuto dalla delusione sportiva, leale con i colleghi, compagni, avversari, testardo anche sopra ad un elicottero con direzione Riyadh. Per una volta umano, Carlos Sainz. E per sempre grandioso.