Come prevedibile, il primo tecnico a saltare è stato quello con il berretto. L'esonero di Giuseppe Iachini da allenatore della Fiorentina non sorprende nessuno. Non è stato di certo lo scialbo pareggio a Parma a costargli la panchina. Su di lui le riserve erano molte già prima che iniziasse questo strambo campionato, quando tra dirigenza e proprietà viola si dibatteva se fosse la persona giusta per guidare una squadra con rinnovate ambizioni europee. Otto punti nelle prime sette partite sono sembrate un bottino sufficientemente scarno per prendere una decisione già da tempo in agenda, senza più procrastinare.
I nomi di Sarri e Spalletti echeggiavano nell'ambiente viola da settimane come quelli dei possibili sostituiti, e forse restano i più quotati anche per l'inizio della prossima stagione, quando davvero il rinascimento viola potrà prendere il via. Fino a quel momento, però, a guidare la squadra in questo sghembo torneo sarà Cesare Prandelli. Proprio come Sarri e Spalletti, anche lui si era rifugiato nelle campagne toscane in attesa un nuovo incarico. Mentre allevava ulivi e produceva olio con certificazione bio arroccato su un colle a 15 minuti da Ponte Vecchio, teneva sempre il cellulare in tasca in attesa di una chiamata. Non si aspettava, però, che a interrompere la sua vita bucolica fosse il ritorno di un vecchio amore. Lo stesso per cui aveva deciso di vivere da contadino nei pressi di Firenze, lontano dalla sua Orzinuovi, perché queste sono le terre dove da tempo si sente più a casa.
Prandelli torna così in viola dieci anni dopo. Aveva salutato ufficialmente la Fiorentina al San Nicola di Bari, all'ultima giornata del campionato 2009-2010, dopo cinque anni vissuti a perdifiato e che hanno prodotto ricordi indelebili in tutti i tifosi gigliati (su tutti la finale di Coppa UEFA sfiorata e gli ottavi di Champions League persi immeritatamente contro il Bayern Monaco). I dissidi con la famiglia Della Valle, che già lo credeva prossimo allenatore della Juventus, avevano causato la frattura decisiva che portò alla separazione. Gli stessi proprietari del club, ormai decisi a puntare su Mihajlovic, lo «accasarono in Nazionale», come dichiarò lo stesso Prandelli.
Quella da ct fu un'altra esperienza in cui mostrò il suo valore di tecnico e il suo rigore morale. Prima, nel 2012, portando l'Italia alla finale dell'Europeo, dove nulla potè contro la tirannia spagnola che all'epoca spazzava via tutto quello che si trovava di fronte. Poi, due anni più tardi, dimettendosi pochi minuti dopo la disfatta del mondiale brasiliano, dichiarando apertamente il fallimento e andando contro al presidente federale Abete, che ancora lo voleva al suo posto.
Non fu certo una novità, nel tempo Prandelli aveva ampiamente dimostrato di non avere problemi a farsi da parte se, per motivi diversi, credeva di non essere più l'uomo giusto al posto giusto. Successe nelle prime due avventure della sua carriera da allenatore, a Lecce (dove il presidente Semeraro fece di tutto per farlo tornare sui suoi passi, senza riuscirci) e a Verona. Successe a Roma, nel 2004, pochi giorni dopo l'inizio del ritiro, per assistere la moglie Manuela gravemente malata. E anche negli anni successivi alla Nazionale, quelli che gli hanno fatto imboccare la strada del decadimento, la stessa in cui è stata inghiottita la Fiorentina nell'ultimo lustro.
Ora si ritrovano, per rilanciarsi insieme. Eppure, le loro parabole non si incrociano nello stesso punto. Per quanto suggestiva e romantica, infatti, c'è qualcosa che stona nella scelta di puntare su Cesare Prandelli. Da una parte una squadra finalmente ricca di prospettive, con ambizioni di modernità e crescita, dall'altra un allenatore che da anni scivola su un piano inclinato. Una che guarda con fiducia al domani, l'altro che trova sollievo volgendo lo sguardo a ieri. Non può che esserci molto sentimento alla base della decisione di affidarsi a un tecnico che come miglior risultato degli ultimi sei anni, in cui ha sposato quattro diversi progetti (Galatasaray, Valencia, Al Nasr, Genoa), ha ottenuto un esonero a Dubai dopo metà stagione. Certo in ognuno di questi si è dovuto scontrare con contingenze dalla forma di false promesse e situazioni disperate, in cui il suo idealismo proprio non poteva incastrasi, ma insomma, per quanto tutti – o quasi – meritino una nuova occasione, forse l'idea che qualcosa tra lui e il gioco si sia rotto non è così remota. Tra il conservatorismo di Iachini e l'appassimento di Prandelli, in fondo, non corre molta strada. Ed è difficile trovare coerenza nella decisione di affidare la risalita a un allenatore in discesa, per quanto questo allenatore sia il più vincente della storia del club insieme a Fulvio Bernardini (99 successi).
A Firenze evidentemente sperano che la rievocazione di momenti e sensazioni passate possa generare un'energia positiva. Di recente, l'alchimia con l'ambiente viola ha avuto modo di manifestarsi anche in maniera indiretta. È proprio con un pareggio all'ultima giornata contro la Fiorentina, nel 2019, che Prandelli riesce a salvare il Genoa dalla retrocessione. Oltre la mistica però, c'è il campo. Qui Prandelli non troverà più Mutu, Gilardino, Toni, Vargas, Jovetic, ma un mix di giovani in rampa di lancio e giocatori esperti, a cui dovrà proporre di giocare un calcio più in linea col tempo di quello che aveva in testa chi lo ha preceduto, e che dovrà portare risultati. Sfida affascinante e difficile, forse l'ultima.
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