“Jorge Martin si è sottoposto a esami medici presso il centro medico del circuito. Le radiografie hanno rivelato una frattura scomposta della clavicola destra. Il pilota sarà trasferito con l'elicottero all'ospedale dell'Università Medica Dokkyo per una TAC al torace, per valutare al meglio la situazione”. Sono le fredde, e disarmanti, righe appena arrivate dall’ufficio stampa di Aprilia e che raccontano qualcosa che ormai è anche difficile, umanamente difficile, da raccontare: l’ennesimo infortunio in pochi mesi del campione del mondo della MotoGP, Jorge Martìn. Aveva cominciato a trovare confidenza con quella moto con cui s’era potuto trovare solo a stagione iniziata, quando ormai c’era più niente da giocarsi. Aveva detto, prima del Giappone, che adesso si sentiva pronto a uno step in più che potesse tradursi in qualche risultato importante di cui andare a caccia. Aveva spiegato anche che per lui, ciò che sarebbe rimasto di questo maledetto 2025, sarebbe servito come un lungo test invernale in vista del 2026.

Invece a tradirlo, anche se non è questo il momento dei processi, è stata probabilmente quella confidenza che aveva ricominciato a sentire e che, come sempre succede nella testa di un campione, s’era trasformata in spinta verso qualcosa di più. Un di più cercando anche oggi a Motegi, dopo una qualifica deludente, puntando tutto su quello che è a tutti gli effetti il momento più pericoloso di ogni corsa: la partenza. Quella di Jorge Martìn, nella Sprint di Motegi, è stata praticamente perfetta: corridoio libero e posizioni recuperate. Poi, però, è arrivata la staccata, il mucchio che si è riavvicinato e fatto denso, la moto che si è innervosita e l’ha lanciato a terra. Prima contro un rivale e poi, nella carambola, tirando giù anche Marco Bezzecchi, il suo compagno di squadra (che ora si sta anche lui sottoponendo a accertamenti).
Sì, perché se c’è una cosa che questo 2025 ci ha insegnato qualcosa su Jorge Martìn, è che per lui la stramaledettissima legge di Murphin valle sempre: se qualcosa può andare storto, ci andrà. Ha sbagliato? Sì, ha osato troppo. Ma in quanti sbagliano e semplicemente rotolano sulla ghiaia senza conseguenza alcuna? Quasi tutti. Tranne Jorge Martìn, appunto. Che oggi, in quella via di fuga di Motegi, è rimasto a terra per qualche secondo facendo gelare il sangue di chiunque. E lasciandolo comunque freddissimo, con un bel po’ d’amaro in circolo, anche subito dopo, quando si è rialzato tenendosi il braccio. Forse gli arbitri della MotoGP, chiamati inevitabilmente a giudizi asettici e al netto dell’umanità, ora lo puniranno anche. Ma che altra punizione vuoi dargli a un ragazzo che ha subito tutto questo?
Che poi la parola “punizione”, esattamente in questo fine settimana a Motegi in cui un altro massacrato dalla sfiga, Marc Marquez, diventerà campione del mondo, fa più schifo che mai. E c’è solo una cosa da fare: guardare quel Marc Marquez e provare a concentrarsi sulla consapevolezza che ogni punizione, anche quando ha le sembianze di un accanimento vergognoso della sorte, può trasformarsi in passaggio verso qualcosa di grande davvero. E "forza Jorge", adesso, è tutto quello che dovrebbe dire chi ama veramente questo sport. E pure chi ha un’anima dentro la divisa da “direttore di gara” o dentro la tuta di uno o più avversari che magari c’hanno rimesso.
