Funziona così anche in MotoGP: con quelli di casa finisci per parlarci sempre un po’ di più. Marc Marquez, ad esempio, lo ha fatto in Giappone, concedendo una intervista al quotidiano sportivo spagnolo As.com, in cui s’è sbottonato decisamente di più di quanto non abbia fatto nei media scrum e nella conferenza stampa di questo fine settimana. E’ la vigilia di qualcosa di grosso e l’otto volte campione del mondo (o sei come pretendono che si dica i nuovi padroni della MotoGP) non gioca la parte di quello che è nel bel mezzo di un week end di gara come un altro. Anzi, sembra guardare già oltre. “Eguagliare Valentino Rossi è un altro onore – dice il 93 - Ho sempre detto che, quando guardavo le gare, i miei idoli erano Valentino Rossi e Dani Pedrosa. Erano due che ammiravo e da cui ero ipnotizzato. Il riferimento? Mi sono sempre concentrato di più su Pedrosa, per la sua altezza, perché da piccolo assomigliavo di più a Dani e volevo essere come lui, ma eguagliare Rossi...”.

E’ una provocazione? In verità no, Marc Marquez sembra sincero e anche coerente rispetto a ciò che ha sempre sostenuto parlando dei suoi eroi e dei campioni a cui si è ispirato. Le provocazioni, semmai, sono altre. E a distanza di giorni si possono anche ammettere: “quello che ho fatto sul podio a Misano è stato più gratificante della conquista del titolo in quella gara lì. È stato un gesto che aveva un doppio o triplo significato. Ci ho pensato tutta la notte: la tuta mi ha dato una motivazione e una concentrazione extra. Mi è piaciuta l’idea e mi sono detto che dovevo farla, perché l'ho immaginata. Se mostri una tuta di una fabbrica diversa dalla Ducati, è diverso, ma ho fatto l'E' Rosso che aveva fatto Davide Tardozzi. E poi il doppio significato di Messi al Bernabéu, ma non l'ho fatto perché sono un tifoso del Barcellona. Se l'avesse fatto qualcun altro e fosse stata un'immagine iconica, l'avrei fatto lo stesso”.
Sì, quella era una provocazione e ormai è chiaro anche a chi non se ne è accorto subito, ma fa parte del gioco e, tutto sommato, fa parte pure di un personaggio che ha le sue legittime ambiguità. Come quando dice di non sentirsi il più grande della storia. E che non lo sarà neanche dopo che sarà arrivato il nono titolo: “non dirò mai se sono il migliore perché credo che ogni pilota abbia avuto la sua epoca. È molto difficile dire se uno sia migliore di un altro. Poi, quando qualcuno si ritira, i numeri ti dicono chi è il migliore. I numeri non mentono. Le parole sono portate via dal vento, ma i numeri non mentono. Ci sono piloti che non hanno mai gareggiato l'uno contro l'altro e non è chiaro chi sia più veloce, perché ognuno ha avuto la sua epoca, le sue difficoltà, i suoi infortuni e i suoi momenti”.
Spiega la sua posizione, tira in ballo Messi e Maradona, ribadisce che tutto quello che conta sono i conti che si fanno alla fine e, poi, sembra lanciare un’altra provocazione. “Agostini è irraggiungibile, anche Nieto è irraggiungibile. Non dico impossibile, ma non fattibile – aggiunge – Il decimo, invece, è possibile, ma semplicemente perché sarà quello che verrà dopo: il prossimo numero”. Lo vuole e è evidente, dopo il passaggio sui numeri che contano, anche chi intende superare proprio con i numeri. Ma Marc Marquez spiega pure che per lui non sarà un’ossessione.
“L'ossessione – conclude - era tornare dall'operazione. Quella è diventata un'ossessione, nel senso che, se non fosse stata un'ossessione, non sarei tornato. Era un'ossessione quotidiana. Mi svegliavo ogni giorno pensando alla guarigione. Questa è un'ossessione. Ora no, non mi sveglierò ogni giorno pensando a come vincere il decimo”. E’ una certezza che ha e è solida almeno quanto un’altra certezza: il Tourist Trophy è una cosa da matti. “Si – scherza – Giacomo Agostini ha vinto anche lì, ma io non correrò mai lì. I circuiti sono progettati per questo, per spingere la moto al limite. Lì è come giocare alla lotteria”.
