Roger Federer è terapia. Gli bastano racchetta e pallina per trasmettere il messaggio: “Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore”. Se “La Cura” di Battiato fosse materialmente trasponibile, allora si manifesterebbe nel Tennis di Federer, che come un’opera d’arte è in grado di incantare, smuovere, distrarre, sanare. Tutti, almeno una volta nella vita, dovrebbero provare – dopo una brutta giornata - a guardare per dieci minuti una partita di Federer. Solitamente ogni punto è diverso dall’altro; ogni punto rappresenta un nuovo tentativo – uno schema differente dai precedenti – volto a ridisegnare il campo. “Federer disegna il campo”, si dice. Lo pennella, in effetti, dipingendo linee e confini con una carezza. Svelando al mondo che un rettangolo di dimensioni 8 metri per 23, diviso da una rete, contenga angoli ancora sconosciuti. Che esiste una via, una soluzione, una traiettoria percorribile, anche quando non sembra esserci scampo. A dissolvere il grigiume di un lunedì piovoso, ad alleggerire una depressione; per ritrovare la speranza, il senso, ed alzarsi dal letto l’indomani.
“You have got to be kidding me!”- mi state prendendo in giro – tuona il telecronista sudafricano Robbie Koenig ai microfoni dell’ATP. “No, non è possibile, non è vero”, ribadisce Paolo Bertolucci. Perché Roger Federer fa anche quest’effetto. Stupore misto a disorientamento. Nel suo gioco convivono inventiva, fantasia e tradizione. Il rovescio ad una mano, uno dei gesti esteticamente più simbolici e chiasmatici nell’intero panorama sportivo, eredità di un tennis d’altri tempi, è sopravvissuto grazie a lui. Lui, soprattutto, ha instillato nelle nuove generazioni il desiderio di emularlo, di fregarsene di maestri ed esperti di tattica che, forse anche a ragione, insistono per l’adozione di un rovescio bimane, più adatto alle velocità del tennis moderno, giocato in buona percentuale da fondocampo. Stefanos Tsitsipas, dopo l’annuncio del ritiro da parte di Federer, ha scritto: “Non potrò mai ringraziarti abbastanza, guardarti giocare è stata la ragione per cui ho voluto imparare a giocare a tennis. Sei tu, Roger, il motivo per cui oggi io gioco con il rovescio ad una mano”. Federer ha stravinto nel tennis del ventunesimo secolo, sempre più improntato sul binomio potenza-profondità dei colpi, rispondendo in controbalzo. Scendendo a rete sulla seconda di servizio, più lavorata ma – per forza di cose – meno veloce della prima. Nel tennis del nuovo millennio, del mondo che non ha tempo per fermarsi e sorridere, Federer ha trionfato attaccando in “back” e tagliando le traiettorie dei passanti con deliziose “stop-volley”. Come direbbe, profetico, Adriano Panatta: “Pensate solo al risultato, a portare a casa la giornata. Avete perso il senso del gioco, del bel punto”. Panatta che, a proposito di Federer, ha commentato: “Ci sono giocatori, pure tra i top 10 della classifica, che quando arriva la pallina hanno due soluzioni a disposizione. Ecco Roger ne ha otto, lui è il tennis”.
Nell’epoca in cui chi urla di più ha ragione. Negli anni in cui chi sbraita guadagna consensi e, gesticolando, ottiene l’attenzione. Dalle tribune politiche alle panchine dei campi da calcio: toni pacati e riserbo sono dei deboli, di quelli che non hanno carattere né grinta. Roger Federer, in quest’epoca, ha alzato al cielo trofei lasciando rimbombare la pallina sul piatto corde, stringendo il pugno destro dopo un punto importante. Nei momenti di massimo trasporto Roger, emotivo e sensibile, si è lasciato andare a tante lacrime, scuotendosi – al massimo – con qualche “Come on” di incoraggiamento. A tal punto che, persino nell’ultima conferenza stampa della carriera, ha dovuto precisare: “Sono stato criticato abbastanza duramente a volte, mi è stato detto che non combattessi abbastanza quando perdevo, che non davo tutto. Ma non capivo. Dovevo correre di più, urlare di più, sudare di più, cosa dovevo fare? Qualcuno mi ha anche suggerito di cambiare il mio atteggiamento, in campo e fuori, ed essere più ‘cattivo’. Ci ho provato, ma non era il mio, era tutta una messa in scena. Allora (sorride) ho chiesto di lasciarmi provare con il mio modo, quello da buono”. E non è andata male, verrebbe da dire.
Tra i tanti dilettanti della racchetta c’è chi ogni volta – prima di scendere in campo – guarda puntualmente un video di Roger Federer, dei suoi colpi migliori. Continua a farlo, nonostante sappia sia controproducente. Perché poi, quando arriva la pallina, ci si scorda subito di essere Federer. Il tentativo di emulazione dura, nel migliore dei casi, qualche minuto; poco dopo vengono a galla – immancabili – gli errori gratuiti, i nervi saltano, ed è un casino. “Mai guardare Federer prima di giocare a tennis”, un dogma non scritto e che mai verrà assimilato. L’atto di venerazione ed ispirazione rimane, le incazzature da campo passano. C’è chi, nella vita di tutti i giorni, non presta la minima attenzione ad abbigliamento e capi griffati. Sul campo da tennis, però, è diverso. Lì – credenza comune - un outfit (“completo” suona male, dai) della collezione di Federer può effettivamente portare qualcosa in più in termini di autostima, persino – si dice - in fatto di reattività. E chi risparmia su marca e modelli ufficiali, cerca quantomeno di abbinare i tre colori che ha a disposizione tra scarpe, calzoncini e maglietta. Alla Roger, insomma. Al contrario di quelli seri, invece, che utilizzano la t-shirt di cotone, rigorosamente con grafiche, per le “ore di allenamento”. Colletto e polo, ovviamente, sono “da gara”.
“Del tennis mi mancheranno anche i gesti più semplici e banali. Come infilarmi le scarpe e sistemare i lacci; mettermi polsino e fascia prima di guardarmi allo specchio e pensare: ‘ok, sono pronto per tutto questo’ “. È questione di poche ore, dopodiché Federer lascerà il tennis professionistico. E non dite che non ci abbia provato, che non abbia pensato ad ultimo regalo da fare a sé stesso e a tutti. Wimbledon 2023, se competitivo, sarebbe stato il sogno. Sei mesi di riabilitazione ed allenamenti a 41 anni dopo tre operazioni al ginocchio destro, che a luglio, in un giorno qualunque, ha lanciato segnali inequivocabili. E Roger ha capito al volo. Valentino Rossi, un anno fa, ammetteva: “Prima di lasciare dovevo provarle tutte, dovevo convincermi al 100% che veramente non ci sarebbe stato più nulla da fare, che era finita”. Federer è arrivato a questa conclusione sul campo da tennis, durante l’ultimo tentativo di rientro. Senza rimpianti, come Rossi appunto, ma con un leggero velo di dispiacere, e nervosismo, in più.
L’ultima partita di Federer sarà un doppio, in coppia con Rafael Nadal. Il rivale di sempre e uno dei più grandi amici nel circuito. Protagonisti, Roger e Rafa, di una dualità così sana e profonda che raramente, nello sport, si è visto qualcosa di simile. Saranno dalla stessa parte del campo, questa volta, a farsi forza. A cercare un’altra zampata, un’ultima emozione da condividere. Perché insieme a Federer, dal campo da tennis, se ne andrà anche una parte di Nadal.
Non è ancora quel momento, però. All’Arena 02 di Londra, sulla superficie tradizionalmente scura della Laver Cup, c’è posto per un ultimo servizio in slice. Per un dritto a sventaglio, un rovescio in risposta giocato d’anticipo. Con gambe e braccia in sforbiciata, a ridefinire il concetto di armonia. Siamo in tempo per una volée in allungo, per una smorzata che – all’improvviso – si nasconde dietro la rete. Per vederti soffiare sulla mano destra e sul manico della racchetta, ad asciugare il sudore. Siamo ancora in tempo per le lacrime, Roger. Per dirti che, con te in campo, siamo stati proprio bene.