Gli occhi di Max Verstappen parlano una lingua che non conosciamo. Sono occhi feroci e silenziosi insieme, diversi da quelli di chiunque altro sulla griglia di partenza. Guardano dall'alto del gradino più alto del podio un popolo, una folla di tifosi vestiti d'arancione pronta a girare il mondo intero per lui, e non sembrano emozionarsi, cambiare davanti alla gioia e al successo.
Max Verstappen non piange, non cede, non arretra mai. Si arrabbia, grida di tanto in tanto, ma è contenuto anche dentro il dolore. Quando all'alba della sua brillante carriera i media lo tormentavano con continue domande sui suoi incidenti ricorrenti, frutto di una fame di successi che ha richiesto tempo e controllo per essere placata, l'olandese alzò le spalle in conferenza stampa e calmissimo disse, senza l'ombra di ironia nel volto: "Se non smettete di farmi questa domanda tirerò una testata a qualcuno".
E quando un pilota non ci assomiglia, nelle fragilità e nei gesti, facciamo fatica a capirlo. Noi che ci emozioniamo da tifosi, noi che piangiamo, e gridiamo, e gioiamo da casa più di lui, lui che è lì, lui che a venticinque anni ha cambiato il corso della storia di questo sport. Lo guardiamo e ci chiediamo se sia reale, se sotto la corazza di talento e controllo ci sia, da qualche parte, un Max fragile, un bambino felice di aver raggiunto il suo sogno di sempre, di essere un campione del mondo vicino a raggiungere il suo secondo titolo iridato consecutivo. Se dentro la tuta da qualche parte ci sia una gioia pura, incontenibile e fortissima, una di quelle da lacrime agli occhi e gambe che tremano.
Dov'è quel bambino, Max? Dove lo hai messo mentre tentativi di trovare posto per la forza necessaria ad arrivare in Formula 1 a diciassette anni, a vincere il tuo primo mondiale lottando per un'intera stagione contro un mostro sacro come Lewis Hamilton? Dove lo hai nascosto adesso che di anni ne hai venticinque? Forse però la risposta, l'unica risposta, è che quel bambino, quello che tutti conosciamo, abbiamo e sappiamo trovare negli altri, Max Verstappen non lo è stato mai. Cresciuto all'ombra di un padre pilota mediocre, dimenticabile, che sul figlio prodigio ha riversato tutti i desideri di successo della sua stessa carriera ormai conclusa, l'olandese non ha avuto il privilegio della mediocrità.
Quel paradiso dell'infanzia in cui si può sognare di essere tutto e tutto il contrario, di iniziare mille passioni e smetterle subito, di fare schifo a fare qualcosa e farla comunque, poi non volerla più fare, poi ricominciare da capo. Max non ha mai vissuto dentro un mondo di piccoli, in cui correre era divertente e basta e la Formula 1 era un desiderio lontano, una cosa da sognare come fanno i bambini, che vogliono essere gelatai sulla luna, astronavi sotto terra e veterinari di unicorni.
Per Verstappen il pilota di Formula 1 è sempre stato un obiettivo, un lavoro, un traguardo da raggiungere. Schiacciato dalle pressioni di un padre che gli ha insegnato a conoscere più la durezza che il divertimento, Max non ha avuto tempo per tutto il resto. Ha mischiato forze e fragilità e ne ha tirato fuori il meglio che poteva, diventando un giovane campione dagli occhi affamati, e un pilota ormai lontano, lontanissimo, dallo spettro della mediocrità.