Se lo cercate su Instagram, l’alias pare quello di un neolaureato che, sbagliando social e pensando di trovarsi su LinkedIn, ci tiene a farlo sapere, convinto ancora che ciò basti: Dr. Shaquille O’Neal Ed.D., dove Dr. è sufficientemente intuitivo mentre Ed.D. sta per Doctor of Education. Poi alla fine quello che conta sono il nome e il cognome che campeggiano tra le qualifiche, e lì non c’è spazio per i fraintendimenti: Shaquille O’Neal, un omone nato a Newark, New Jersey, il 6 marzo del 1972, che ha festeggiato 50 anni e che viene difficile catalogare in qualsiasi elenco. Perché sì, Shaq è stato indiscutibilmente uno dei più portentosi centri nella storia della Nba - occhio: vi abbiamo risparmiato l’aggettivo “dominante”, che trovate dappertutto - nonché uno dei cinque giocatori più pagati del basket americano, e la sua vicenda personale è indissolubilmente legata alla pallacanestro. Ma quella di O’Neal è la storia di mille vite, quelle di una star planetaria che sinora ha saputo sfuggire alla noia del miliardario blasé, reinventandosi in una marea di ruoli, da quelli più seri a quelli più ridicoli, ché tanto lui è Shaq e funziona comunque.
Recitare ha recitato: alcuni film di discreto livello, altri pessimi (Kazaam, che lui stesso un giorno seppellì spiegando che “qualcuno venne da me a dirmi: ‘Ti diamo 7 milioni per fare il genio in questo film’. Che gli dico, di no? Così l’ho fatto”), una serie sulla sua vita; protagonista o guest star, doppiatore, presenza in un cameo. Cantare ha cantato: quattro album e un paio di milioni di copie vendute, dicono che come rapper ci sapesse fare, ma oggi la voce si è arrochita, struscia, e infatti Shaq non canta più, ma si è riconvertito in dj, Dj Diesel. Sponsorizzare ha sponsorizzato, nel senso che da quasi trent’anni, costantemente, negli Stati Uniti, è stato testimonial di qualcosa. Studiare ha studiato, e i titoli di studio non gli mancano. Ha fatto televisione, ha fatto investimenti che ne hanno quadruplicato le ricchezze - tra l’altro in Apple, Google, nella ristorazione, nell’abbigliamento - e si è concesso tutta una serie di quelle inutili ma formidabili attività che riempiono la vita di chi non ha bisogno di guadagnarsi da vivere perché ha già la possibilità di sfamare quattro-cinque generazioni, tipo organizzare feste con migliaia di persone (gli ormai classici “Shaq’s fun house”), sfidare in vasca Michael Phelps, cimentarsi nel wrestling, dirigere l’orchestra dei Boston Pops, farsi insegnare come si tira di là dalla rete una palla da tennis da Serena Williams, per dire.
Larger than life. Questo è Shaquille O’Neal dopo essere diventato Shaq, una vita fa, quando nel 1992 il ventenne ragazzone di 2 metri e 16 e quasi 150 chili fu la prima scelta degli Orlando Magic ai draft. La storia del fuoriclasse della Nba parte da lì, dalla Florida, e subito il fisicaccio e la forza lo impongono a media e appassionati, impossibile non notarlo, ma non solo per quello: O’Neal è il centro perfetto per tutte le guardie più dotate. A Orlando è Anfernee Hardaway, nei Lakers del three-peat è l’altro gallo del pollaio Kobe Bryant (“Ma il 60% della nostra rivalità è stata tutta una montatura”, Shaq dixit), agli Heat Dwyane Wade. Quattro gli anelli tra Los Angeles e Miami, oltre 28 mila i punti in Nba, un oro mondiale e uno olimpico, 19 tabelloni distrutti - vera o apocrifa che sia, la cifra la si evince dalla scultura a forma di albero che ha installato nel suo giardino, con 19 canestri al termine di altrettanti rami - e non ha nemmeno senso elencarne tutti gli obiettivi raggiunti o ricordarne i record, l’incredibile idiosincrasia per i liberi, le maglie ritirate, le polemiche vere o artificiose, le sparate e le interviste da genio del marketing qual è sempre stato, e forse per questo qualcuno un giorno l’ha preso troppo alla lettera e gli ha proposto di travestirsi appunto da genio in un film che ha incassato meno rispetto al budget investito. Perché un terzo del budget era per lui e cosa doveva fare, dire di no?