E quando vince, perché vince; e quando perde, perché perde. E gli arbitri, e la cucina, e la fidanzata: Jannik Sinner, oltre a essere diventato in pochi mesi sogno sportivo e modello di vita degli italiani, ora è un genere giornalistico, perché qualunque cosa gli accada fa notizia, anche dove la notizia non c’è. Perdere nello sport è parte del gioco, è addirittura quella preponderante a livello di titoli – alla fine uno vince e alza il trofeo, gli altri, tutti gli altri, no – e la sconfitta contro Stefanos Tsitsipas in semifinale a Montecarlo, a Sinner, poteva accadere ed è accaduto. Sinner ha perso, così come aveva perso contro Alcaraz a Indian Wells, e pazienza se ci sono stati i crampi – ebbene sì: Sinner può avere i crampi – e ci si è messa in mezzo anche una palese non chiamata dell’arbitro su una seconda di servizio lunga del greco in un momento topico, ma vabbé: il tennis per fortuna non il calcio, Sinner tutto sommato l’ha presa con una certa filosofia e sicuramente, essendo un vincente nella testa prim’ancora che sul campo, non ci costruirà su un mito capace di durare venti o trent’anni, uno di quelli tipici dei sore loser – specie di altri sport – che non perdono mai per colpa loro.
Sinner ha perso, viva Sinner: ha perso e perderà, ed è per questo che diventerà il numero uno del ranking Atp, prima o poi, e molto probabilmente più prima che poi, ma il punto non è nemmeno questo, è l’equilibrio che serve quando si tratta di scriverne. Viva Sinner, anche quando perde, perché ormai l’altoatesino serve anche per l’indicizzazione di testate che di tennis si sono occupate il meno possibile, perché è sempre un titolo, perché in fondo di questi tempi è piuttosto normale che di un campione del genere venga fatta la radiografia mediatica e anche, come si diceva, che Sinner diventi un genere giornalistico e pure letterario, se utilizzare “letterario”, in questo caso, non fosse un uso piuttosto irresponsabile del vocabolario. Però sì, i libri su Sinner non mancano e se ne è di recente aggiunto uno, uscito per Rizzoli – sì, Rizzoli –sui (o dei?) Carota Boys, tanto per dire quanto ormai si possa vivere della luce di Sinner attraverso mille riflessi. Tutti sullo spettro dell’arancione, ça va sans dire.
Ora, posto che in meno di un anno Sinner ha fatto godere il pubblico italiano più di quanto tutti gli altri suoi colleghi e connazionali, negli ultimi quarant’anni, hanno fatto in tutta la carriera, dovesse non arrivare per caso in fondo ai prossimi tornei, sarebbe nient’altro che un’eventualità. Un mese fa, dopo la sconfitta con Alcaraz e prima di Miami, Claudio Giuliani, nella newsletter Warning, scrisse che “nel tennis è difficile ipotizzare cosa può succedere in un anno, figuratevi in un decennio. Tsitsipas, Zverev, Thiem e compagnia bella sono lì a dimostrarlo. Stefanos doveva essere almeno a quota quattro o cinque Slam quest’anno a leggere gli articoli di cinque anni fa, eppure ne ha meno di Sinner. Uno dovrebbe comprendere che i tennisti di altissimo livello sono il prodotto di combinazioni che sono quasi miracolose per come riescono a reggersi grazie a incastri millimetrici”. E i crampi, i colpi considerati dentro pur essendo finiti fuori e le sconfitte questo sono: incastri che toccano. Succede.