Ogni autodromo del Regno Unito racconta una storia della carriera di Lewis Hamilton. Ogni kartodromo, ogni pista, grande o piccola che sia, ha rappresentato qualcosa nella scalata verso la Formula 1 del campione inglese. Come Rye House, dove il piccolo Lewis correva sognando la massima serie, terra impressa nella sua memoria tra le gioie dei successi e il dolore, immutato e vivissimo ancora oggi, del giorno in cui lì - in pista - venne a conoscenza della morte di Ayrton Senna. Era il primo maggio del 1994, Hamilton aveva otto anni, le lacrime agli occhi, una voce nella testa che gli diceva di non piangere: "Mio padre mi aveva insegnato che piangere era motivo di debolezza - racconterà Lewis molti anni più tardi - e quel giorno mi nascosi per non farmi vedere".
Da Rye House a Silverstone la distanza è breve, meno di due ore di viaggio in auto. Una cosa da niente per chi, per il motorsport, ha fatto sempre l'impossibile. I tre lavori del padre, le rinunce nella vita privata, nelle amicizie, nella scuola. Il tempo, tutto il tempo, messo al servizio di un sogno. Quando non correva, il piccolo Hamilton, la Formula 1 la immaginava, guardando i suoi miti correre tra le vie di quella che un giorno sarebbe diventata la sua pista di casa.
Tornare a Silverstone per il sette volte campione del mondo è una passeggiata nel passato e nel presente di una storia che ha il profumo delle cose conosciuto, quelle che assomigliano alla malinconia di una grande vita dedicata a un solo obiettivo. Un sogno raggiunto, superato, andato oltre ad ogni aspettativa anche solo immaginabile. Cosa avrebbe mai detto quel bambino di Stevenage se gli avessero detto, guardando l'ingresso della pit lane di Silverstone, che un giorno tutti sarebbero stati lì ad aspettare lui: il pilota più vincente della storia della Formula 1, l'eroe dello sport inglese, arrivato nel suo weekend di gara tra le grida della sua gente.
Essere lì, in un anno complesso come questo 2023, è un salto indietro per guardare avanti. Per lui che potrebbe lasciare, ma che dice di voler rimanere ancora a lungo. "Altri cinque anni", ammette. Qualcosa di impensabile solo pochi anni fa quando nel 2021, a pochi passi da un ottavo titolo mai arrivato, già si immaginava il suo prossimo ritiro. Ora che quell'ottavo ancora lo sogna, per Lewis i progetti sono cambiati: sa che non sarà facile, e immediato, tornare al successo con una squadra che ha dominato la Formula 1 per quasi un decennio. Sa che i giovani sono sempre più forti, sempre più preparati, sempre più intenzionati a prendersi il posto d'onore in una serie che li vede emergere mentre i volti nel paddock cambiano, l'età di abbassa.
Ma Hamilton non molla, stringe i denti. Si lamenta via radio come un rookie che non ha quello che vuole, come un giovane che con queste carte in mano non può dimostrare quello che sa ancora di poter dare. Non lo fa per trovare una giustificazione ai suoi risultati (comunque più soddisfacenti di quelli del compagno di squadra George Russell in questo inizio di 2023), ma perché uno come lui non scende mai in pista per fare solo il compito che gli è possibile portare a casa. Vuole di più, sempre. Perché è scritto nel suo DNA, impresso nelle strade di una Silverstone che in questi oltre 20 anni di carriera ha accompagnato successi, delusioni, polemiche e riscatti.
Così mentre discute un rinnovo di contratto compresso, forse l'ultimo della sua carriera, e risponde alle critiche di chi lo vorrebbe ritirato, Lewis Hamilton arriva a Silverstone come il bambino di un tempo. Pieno di un talento che non invecchia, non sbiadisce, di un senso del sacrificio, e del lavoro, che non sente il passare del tempo. Soprattutto qui, a casa, dove ogni cosa è iniziata. Dove Lewis Hamilton è diventato chi è, e chi sempre sarà.