“Prepariamoci psicologicamente ad un’altra giornata di merda”. Questo dice Daniele, uno dei compagni di viaggio di questa trasferta, mentre fa partire la sua macchina. A Taranto si cuoce, è arrivata l’estate. L’appuntamento è in un bar di periferia, pronti per imboccare la Statale Basentana che ci porterà a Venosa, provincia di Potenza, per il match di cartello: Lavello-Taranto, ultima giornata del campionato di serie D girone H. Il Taranto deve vincere per raggiungere la promozione diretta in serie C, da primi in classifica. Se pareggiamo o perdiamo, il Picerno, la nostra diretta concorrente, deve solo vincere contro il Gravina per superarci e chiudere la questione.
“Mai riusciremo ad entrare allo stadio con tutte ‘ste strunzat d’u covid dell’muert e stramuert” dice Eugenio, il rais di Paolo VI, uno dei quartieri più complicati di Taranto.
Già, perché lo stadio di Venosa per normative di distanziamento è abilitato solo per trecento biglietti, la cui rivendita non era accessibile online ma soltanto acquistando il tutto da un tabacchino di un paese là vicino. In pratica, ci stiamo azzoppando duecento chilometri per vedere la partita sui cellulari in diretta dal Facebook della società Taranto F.C. 1927, magari provando a forzare qualche porta d’ingresso. Mitomania? No, semplice follia da tifosi mista a disturbo ossessivo-compulsivo.
Arriva l’altra macchina a cui ci aggregheremo, sono cinque ragazzi come noi, ma loro stanno in un gruppo organizzato. Noi siamo cani sciolti: io, Daniele, Angelo ed Eugenio il califfo del rione.
In macchina sono tre ore abbondanti per arrivare a Venosa. Non si parla granché, c’è tensione. Il viaggio di andata delle trasferte è sempre così, si cincischia, quasi si rimpiange di non essere rimasti a casa senza fatiche eccessive. Google Maps ci complica la vita e ci fa percorrere una strada indicizzata come “sconosciuta” dallo stesso Dio del Web, fatta di tornanti e smottamenti, brecciolino e cani pastore che attraversano la strada. Bestemmiamo di brutto. Seguiamo l’inizio della partita in streaming mentre cerchiamo questo stadio maledetto che sembra non esistere. Il Taranto passa in svantaggio: 1-0.
“Nah, che vi stavo dicendo? Classico stile Tapaz” rincalza Daniele.
A dieci minuti dalla fine del primo tempo arriviamo davanti a questo rettangolo di cemento brullo, cancellate verdi scorticate e due ingressi a finestrella col plexiglass al botteghino. Il Taranto nel frattempo ha miracolosamente pareggiato. 1-1 e palla al centro.
“Proviamo a fare il giro del campo per capire se troviamo qualche buco da cui entrare” dice Angelo, con il suo proverbiale sale in zucca.
I tifosi del Lavello ci occhieggiano dalla tribuna mentre ci aggiriamo per tratturi ricoperti di rovi e buste dell’immondizia abbandonate. Ci fischiano, chiamano persino un carabiniere. A noi si accodano un’altra decina di tarantini disperati. Nulla: la partita non la possiamo vedere, non c’è il modo di scavalcare e fare gli scimpanzé. Decidiamo di raggiungere gli altri ragazzi con cui siamo partiti, che stanno sul versante opposto rispetto all’ingresso dove stiamo noi. Mentre camminiamo delle macchine ci sorpassano e suonano il clacson.
“Da chi è che dobbiamo prendere mazzate?” faccio in un afflato di sarcasmo.
I clacson sono ripetuti e nevrotici.
“HA SIGNATE ‘U TARDE! HA SEGNATO IL TARANTO!” ci urla un signore di mezz’età dal suo suv.
Gridiamo ma ci azzittiamo subito per non portare “sgubbia”. È finito il primo tempo e ci sono ancora 45 minuti di sofferenza.
In un angolo, tra cellulari dei carabinieri e posti di blocco della Polizia Locale, ci sono sì i nostri compari di partenza, ma anche un’altra quarantina di ragazzi con le magliette nere e i cappellini da pescatore.
“Menchia, i ragazzi della Gradinata!”
Sono un gruppo ultras di formazione recente, i ragazzi della Gradinata. Un’emulsione di vecchie glorie del movimento ultras tarantino e nuove leve col sangue agli occhi. Sono compatti, tosti, probabilmente una delle migliori realtà emergenti.
“Quaranta bastardi sono” dice Daniele “questi chiunque li incrocia per strada ha problemi ad affrontarli”.
Cantano cori per il Taranto, cori per i diffidati. Saluto Peppe, uno dei pochi che conosco bene del gruppo Gradinata. Peppe è quello che definiresti con un meme maschio alfa: tatuato da petto a polpaccio, pugile, lavoratore in una fabbrica. Mi sembra un pezzo di acciaio e ghiaccio. Buttiamo anche noi comitiva originaria dei cori, saltiamo, ci muoviamo, e penso che è davvero assurdo: stiamo osservando e cantando in direzione di un cancello scorrevole e un muro di tufo. Manco una zolla di campo riusciamo a vedere. Questa è devozione.
Si fumano sigarette a ripetizione, si stappano birre. Il sole picchia come un peso welter assassino.
All’improvviso, il silenzio. Poi il boato, come un tuono che squarcia una limpida serata di primavera.
“Due a due nel marmo”
Il Lavello ha pareggiato.
“E il Picerno?”
“Vince col cazzo in mano”
“PERSO!”
Qualche reduce indomito prova a intonare cori che siano propiziatori per il gol. Come gli aruspici che sbudellavano procioni per leggerne il futuro nelle interiora.
Il morale è basso.
Non so cosa stessi facendo. Probabilmente mi guardavo la punta delle Adidas.
Di nuovo, tutti a testa china sugli smartphone, poi un urlo strozzato.
“GOOOOOOOOOL! GOOOOOOOOOOOOOOL!”
Cosa?
“SANTARPIA! SANTARPIAAAAAA!”
Antonio Santarpia, un under classe 2000 da Castellammare di Stabia, ha segnato.
Birre che volano. Ghiaccio lanciato in aria. Abbracci, schiaffi in faccia, pugni sui cofani delle macchine parcheggiate.
“CALMA UAGNU’ CHE È PRESTO ANCORA!”
L’adrenalina sale, cantiamo per svernare. Il muro di cinta davanti a noi, dieci minuti scarsi prima del triplice fischio.
“Cinque minuti di recupero? Eppizz’!”
Ci si mangia le unghie, si fuma a scarrello. Quasi sentiamo le labbra dell’arbitro che serrano il fischietto.
Ma quanto manca? Quando sei in vantaggio e devi mantenerlo, il tempo non scorre MAI. Un secondo sembra un minuto. Ci guardiamo in faccia: l’ennesima delusione ci aspetta? Il classico rigore fischiato contro al 95esimo?
Taranto è una città piena di sfighe. Davvero. Credo sia una delle più problematiche e incasinate d’Italia. Inquinamento, classe politica storicamente indegna, precariato, cultura morta, emigrazione giovanile. A livello calcistico, non vinciamo un campionato sul campo dal 2005/2006, quando battemmo il Rende nella finale playoff che dalla C2 ci portò alla C1. Il Taranto Calcio è l’emblema del treno che deraglia prima dell’ultima fermata. Catania, Avellino, Ancona, Atletico Roma, Pro Vercelli: tutte squadre con cui abbiamo perso la partita decisiva, nomi che se li menzioni a un tifoso tarantino come minimo fa la faccia brutta e si intristisce due ore buone.
Non oggi.
Oggi, 13 giugno 2021, dopo un anno e mezzo di pandemia, il signor Cristiano Ursini della sezione di Pescara, alle ore 17.55, decreta la fine della partita.
Lavello - Taranto: 2 a 3.
Abbiamo vinto.
Siamo primi in classifica.
Siamo promossi in serie C.
Vagiti di liberazione. Urla gutturali. Siamo frastornati. Che dobbiamo fare?
“Come si festeggia, ragà?” dice qualcuno.
E’ proprio vero, non siamo abituati a vincere e festeggiare un traguardo reale, concreto. Ci limitiamo a indorare le sconfitte con aneddoti di trasferte e di tifoseria da palcoscenici superiori, ma la bacheca dei trofei resta sempre vacante, vuota. E’ come se stessimo sognando. Non ci crediamo. Ci aspettiamo che l’arbitro non omologhi il risultato, che al Picerno assegnino dei punti extra per meriti improbabili.
Invece no, abbiamo vinto.
“Il Taranto ha vinto il campionato!”
Peppe, il ragazzo della Gradinata, l’hombre vertical, si appoggia ad una macchina, si toglie gli occhiali, e piange. Piange, sì. Lui, che l’ho sempre visto come il cazzuto ragazzo di quartiere, sta piangendo. Difficile da spiegare, a chi non è tarantino, che cosa significhi una vittoria sportiva. Non è la Champions League, ma manco la Serie A. Eppure, per una città così offesa e stuprata da politica ed economia, per dei tifosi e cittadini che si sentono italiani di serie B, esporre con fierezza il proprio simbolo di un delfino cavalcato da un antico eroe greco è una piccola, enorme rivincita. Della serie: abbiamo vinto, esistiamo, e prima o poi vi chiederemo conto di tutto il male che ci avete fatto.
Il ritorno a Taranto, che di solito è un nefasto susseguirsi di racconti ad alto tasso di humour nero per sgrassare la sconfitta, è oggi condito di cori trash e di calcoli sulle trasferte che faremo l’anno prossimo.
“Avellino, Pescara, Foggia, Casertana… Catanzaro, Catania. Tutte stanno” dice Daniele.
“L’anno prossimo o vai in ospedale o te ne vai in galera” fa Angelo.
“E piccé,” rincara Eugenio “il Bari? Io pensavo che mai avrei visto un Taranto Bari. Mai nella storia”
Il Taranto ha una rivalità pazzesca col Bari. Il Taranto in realtà non è che abbia molte amicizie, anzi praticamente nessuna, ma con Bari c’è un odio antico. Qualcosa che va oltre le partite, che si sedimenta nella superiorità economica e organizzativa del capoluogo di regione. Università, soldi, aeroporto, politici… tutto è sempre stato a favore dei levantini baresi.
“Eh ma l’anno prossimo bisogna andare in diecimila al San Nicola di Bari”.
Facciamo partire un coro bellissimo a celebrare il tutto, che fa scontrare la tradizione religiosa tarantina con quella barese:
“Mio nonno mi diceva che la storia è una sola il nostro San Cataldo caricava San Nicola!”
Arriviamo a Taranto che c’è aria di festa. Ci dirigiamo allo stadio, per aspettare il ritorno della squadra e tributargli la giusta dose di endorfine e amore.
Nel piazzale antistante la Curva Nord, il settore di casa di noi tarantini, c’è un delirio allucinante.
Bandieroni, torce, striscioni, tricktrack, bombe a mano, lanciacori, fumogeni. Cinque-seimila persone. Un sacco di ragazzini sotto i diciott’anni.
Manco arriviamo che il coro assordante è uno e solo.
“E chi non salta, è un barese, ooooooh oooh oooh ohhh ooooh oooooooh!”
La gente è uscita di testa. E’ una promozione in serie C e stiamo dando i numeri.
“Se andiamo in serie B la città viene rasa al suolo”.
E’ tutto bellissimo. E’ bellissima la spontaneità dei ragazzini che cantano cori sgrammaticati, sono bellissimi i capi ultrà storici a petto nudo e megafono in mano che provano a coordinare, sono meravigliosi i genitori coi bimbi piccoli sulle spalle e la sciarpa di lanetta al collo, è uno splendore lo stadio Erasmo Iacovone che svetta nella sera tarantina coi profili rossi e quell’aria di resa dei conti, che per una volta si è conclusa in nostro favore. Io, Daniele, Angelo e Eugenio ci abbracciamo e saltiamo come dei pazzi maledetti. Quando arriva il pullman della squadra c’è così tanta felicità che si urla e basta, si battono le mani, manco un coro organizzato si riesce a fare. Incontenibili. Va bene così.
Non siamo abituati alle vittorie. Siamo affamati. Abbiamo avuto davvero poco dalla vita, se non calci in bocca. Taranto è una città così maledetta, così magica, così bella. Un posto dove rischi di annegare nel nulla, a volte, ma che poi quando ci ritorni non puoi fare altro che pensare al tuo lurido appartamento in una periferia oltreconfine e pensi “ma io che ci faccio là? Dovrei stare QUA, tra i due mari di Taranto”.
La vittoria del Taranto Calcio è un po’ una vittoria su tutto lo schifo che abbiamo dovuto ingoiare negli anni.
Fateci cantare, ancora un coro soltanto.
Soltanto uno. Poi ce ne andiamo.
“E CHI NON SALTA, È UN BARESE…”