FLASH BACK - Domenica mattina. 26 gennaio 2020. Questa la data che rimarrà per sempre scolpite nella memoria collettiva di tutti noi, che Los Angeles non scorderà mai. 10:25 AM. Questa invece l’ora ini cui twitter e messenger implodono, letteralmente invasi da quasi 25/30 milioni di messaggi più o meno simultanei. Questo il momento in cui ricevo un text da mio cugino Riccardo (ex cestista) che mi chiede:
“Roby, ma è morto Kobe? Cazzo dimmi di no…”
"FUCK NO" - la mia risposta.
E poi SUBITO, ecco arrivare le lacrime, impietose. Sono morto anche io in quel momento. Dead. Finito. Kaputt. Zilch. Nada. Zero. Poi, volendo, la vita va avanti, anche se Covid, Mr.Orange, George Floyd, raggi ultravioletti & candeggina, divisione, razzismo, disoccupazione, proteste, supremazia bianca, elezioni e disillusioni dei MAGA supporters (che non hanno capito ancora un cazzo) prendono e richiedono le attenzioni della nostra quotidianità, ecco che basta la bubble NBA e la vittoria dei mie purple&gold Lakers a riaprire quella ferita che non si chiuderà mai, quel ricordo che saprà sempre di fiele. Niente e nessuno potrà mai riempire quel buco, quella fossa (altro che quella delle Marianne) che ci siamo scavati dentro quella mattina.
FLASH FORWARD - Oggi, 26 gennaio 2021 eccomi davanti all’ingresso del Pacific View Memorial Park & Mortuary di Newport Beach, ridente cittadina costale californiana (la più ricca degli Stati Uniti), la cui popolazione è un misto di $$, di atleti (casa di Kobe & Vanessa) e chi invece ci lavora: messicani, bianchi e asiatici, e SEDE della tomba di Kobe. Sono venuto qui per rendergli omaggio nella data del primo anniversario della sua morte. Sono qui per salutarlo, per dirgli ancora quelle frasi che ci scambiavamo quando ci si vedeva, ci si parlava. Sono fiero di essere stato (come diciamo noi) un bug on the windshield of Kobe Bryant (letteralmente un insetto schiacciato-morto sul parabrezza della sua macchina); fiero di aver trascorso 20 anni con lui e i Lakers; di averlo incontrato una ventina di volte, di essere stato al suo matrimonio (di nascosto e in silenzio, sull’ultima panchina della chiesa), di averlo intervistato (in lingua italiana, in mezzo a 200 inviati mondiali) per le finali, per la presentazione delle sue scarpe, per la Rai, a 4-5 All Star Games, agli Oscar party, per intro Mamba Academy… e adesso, pervaso dalle stesse sensazioni, rieccomi a singhiozzare come un bambino al solo pensiero, incazzato impotente ferito. Entriamo e cerchiamo di capire dove sia la TOMBA, che per ragioni di sicurezza, non solo non è segnata, ma è nascosta a tutti. Armati di maglietta #8 e maschera Lakers, chiediamo, fingendo un inglese maccheronico, all’addetto del cimitero che, dopo aver capito che non siamo yankees, ci indica furtivamente la via, diretta verso il marciapiedi con la scritta CATALINA VISTA, dove qualche metro più sotto, si trova la tomba di Kobe Bryant; una targa sul prato erboso vicino ad un paio di mausolei, semplice, circondata da un muretto di pietre e da un cancelletto di ferro che ne impedisce l’entrata. Attenti, non c’è nulla che ci faccia sapere l’esattezza del luogo, che ci dia conferma, se non una manciata di indizi, risaputi dai suoi tifosi e tramandati ai fedeli che vogliano vedere e toccare con mano propria: il colore dei fiori, rigorosamente oro-viola; due soli mazzi di fiori (Kobe e Gianna), ancora due i wind chimes dietro alla targa (#8 e #2); il ritratto di un uomo accanto a quello di altre 4 donne sulla stessa targa (Kobe, Vanessa, Natalia, Gianna, Bianca); e volendo, oggi c’è anche Grogu, il pupazzetto di Baby Yoda della serie The Mandalorian, amato da Gianna e le sue sorelle, e se tutto ciò non bastasse, aggiungiamo il fatto che il 20 Aprile 2020, un pazzo armato di vanga e pala ha cercato di dissotterrare le due bare… finchè non è stato fermato e catturato dalla sicurezza del cimitero e (speriamo) messo in manicomio per sempre. Dopo aver visto, riflettuto, pensato, odiato e maledetto il momento in cui… basta, non ne posso più, e completamente svuotato, psicologicamente e fisicamente distrutto, me ne sono andato, ripensando a cos’è stato e cos’è adesso L.A. senza il mio KOBE.
Ad un anno della sua morte, il tutto è ancora confusione, rumore, chiacchierio di una città che lo aveva eletto padre padrone. Che aveva osannato la sua indomabile voglia di successo, arroganza, il suo accettare e trasformare ogni sfida e pressione in un’opportunità. Mai nella storia e nel tessuto sociale di una città, la morte del suo cittadino più rappresentativo è riuscita a renderla più vicina, unita, umana, anche se di fatto la scomparsa del proprio Eroe l’ha uccisa, zittita, rimpiccolita, inginocchiata, distrutta emotivamente. La morte di Kobe Bryant ha fatto precipitare L.A. in un’angoscia mai vista, un senso di perdita e depressione latente paragonabile forse ai riots civili del 1992 di Rodney King, dove lacrime, desolazione e sconfitta avevano sostituito sogni, speranza e sorrisi. Con lui, se n'è andata senz’altro un pezzo della nostra vita, noi di Los Angeles, noi che l’abbiamo visto crescere qui, noi che ce lo siamo coccolati per 20 anni, unico playmaker la cui carriera cestistica si è svolta per intero in una sola città, specialmente quando la destinazione di atleti e personalità viene comandata e decisa da soldi ed ego spropositati.
Come vi dicevo, Kobe ha toccato profondamente anche me, Roberto Croci, di Rho, paesino in culo al mondo dell’interland milanese, che da circa 35 anni vivo a Los Angeles, un insieme multietnico di virtù e contraddizioni di circa 15 milioni di americani tutti spinti dall’American Dream, dalla possibilità di riuscita individuale dei propri sogni. Qua, io che da piccolo ero abbonato ai I Giganti del Basket, che seguivo i consigli del mio primo allenatore Dante Gurioli (guru cestistico, ma per tutti me l’uomo di Mabel Bocchi, la Venere del Parquet, meravigliosa, statuaria, la prima donna a gestire il testosterone della Domenica Sportiva), che portavo la donna a vedere le partite della Norda di Rho (serie B) degli indimenticabili Arrigoni, Sala, Nebuloni e Piva; sempre io che tifavo Xerox e poi Billy di Milano e le sue scarpette rosse; ho scoperto la NBA, scoperto bastardaggine, talento e arguzia di Larry Bird e la magnificenza dei SHOWTIME di Magic Johnson e Pat Riley; ho assistito alla storia scritta e riscritta da sua maestà MJ e per finire, mi sono innamorato, durante l’apparizione quasi fugace di un ragazzino gracile di 17 anni che parlando pure italiano, diceva a tutti, la sera della NBA DRAFT: “I am going to be the best NBA player ever. I don’t want to be the next Jordan, I only want to be Kobe.”
Inutile ripetere cifre e statistiche, basta dire che era diverso da tutti gli altri, che il suo furore era letale e leggendario, la sua è stata arte in movimento, amore, dedizione, improvvisazione, tecnica, il corpo come unico strumento. KOBE BRYANT #8 aka THE BLACK MAMBA #24, di crescita e valori umani italiani è (ancora non riesco a dire ERA) senz'altro uno dei giocatori più amati, riveriti e fondamentali per lo sviluppo di uno degli sport appartenente all’Olimpo degli Dei, l’NBA, la National Basket Association, dove KOBE, per me che sono homie, local, los angeleno, è il migliore di tutti. Kobe è il Golden Child, Kobe era fedele, Kobe era Darth Vader (amava film e canzone) cattivo e buono allo stesso tempo, Kobe era prodigio che parlava ben 3 lingue e che odiava i party Vip, rifuggiva quella celebrità facile Hollywoodiana, Kobe amato e riverito da Jerry West, ma soprattutto idolatrato dai lavoratori messicani blue collar los angeleni che sputano quotidianamente sangue per vincere, contando soprattutto su rispetto e famiglia, qualità ben note al #24.
Dopo la sua morte abbiamo visto immagini inedite, raduni di massa, silenzi assordanti, sguardi persi, gioie e pianti, culminati con un tributo sociale riservato solo a chi di fatto è riuscito nell’intento di dialogare con tutti, a toccare l’anima di TUTTI, a rappresentare tutti noi, giovani e vecchi, bianchi, neri, messicani & asiatici, ricchi e poveri, di colui che è riuscito a convincerci che con sacrificio e abnegazione si arriva ovunque, che non è MAI TROPPO TARDI… KOBE era un mito. KOBE era il nostro. KOBE era tutti noi. Uno di noi. Tutti abbiamo ancora nella mente e nel cuore i primi tiri, il sorriso, l’arroganza del campione, i records abbattuti uno dopo l’altro, il lob fatto a SHAQ, (3 titoli consecutivi) il processo in Colorado e conseguente caduta dall’Olimpo degli Dei, la rinascita, le scuse, la moglie Vanessa e le figlie, gli 81 punti contro Toronto, il pianto sul parquet contro gli odiati Celtics, Pau Gasol e gli altri due titoli, la rottura di quel tendine di Achille contro i Warriors… che ai miei occhi l’ha reso IMMORTALE. Sì, proprio in QUEL MOMENTO, proprio come l'Achille dell’Iliade, quando, in preda al dolore fortissimo si rialza e, invece che uscire in barella, si dirige mestamente e lentamente alla lunetta dei tiri liberi dove, smorfia dopo smorfia, in un Staple Center piombato in assoluto silenzio, seguito da sguardo incredulo e lacrime di Jack Nicholson (e le mie di adesso), li infila entrambi, uno dopo l’altro, per poi uscire, sostenuto, anzi trasportato come Cesare sulle spalle da tutti i cittadini di Los Angeles. E come dimenticare la sua ultima partita dove, ovviamente, ha trascinato i Lakers con ben 60 punti, gli ultimi 10-15 canestri fatti in un susseguirsi di azioni al cardiopalma che hanno letteralmente… fatto vedere quella MAMBA MENTALITY di cui predicava, di cui era fiero, di cui era letale esponente. E in periodi di cealing femminile, di diversity non dimenticatevi che KOBE è stato uno dei primi a vedere potenzialità e fervore atletico, nonchè competitivo, di donne e ragazze che crescevano nel mondo dello sport femminile, che ultimamente aveva trovato in Kobe un paladino indefesso, grazie anche ad atlete come la sua grande amica Diana Taurasi (soprannominata da lui White Mamba), Maya Moore ed Elena Delle Donne, oltre al suo grande amore GIANNA #2, la figlia alla quale aveva lasciato il compito di proseguire e tramandare ai posteri il suo nome e le sue signature mosse.
Adesso, quel sudore, dolore e fatica insegnati da Kobe, e quell’evoluzione che ci ha mostrato nella sua vita post atleta - entrepreneur, produttore, filantropo, autore, scrittore, editore, CEO, Oscar - viene ampiamente ripagato da dedizione e creatività di centinaia di artisti locali che dalla notizia della sua morte ad oggi, hanno deciso, per alleviare quel dolore, per riempiere quel vuoto, di dedicargli, insieme alla figlia Gianna Gigi Bryant #2, centinaia di murales per le strade di Los Angeles, sua città eterna. Ispirazione, costanza, perseveranza, grinta, passione, usate per fare gli stessi murales che non sono altro che tombe, mausolei, camposanti e vere e proprie necropoli geografiche sparse per la Città degli Angeli… murales che per me sono vere tombe di Kobe, luoghi in cui ricordarlo con amore. E la prossima volta che girate per L.A. - da Venice Beach a Marina del Rey, da South Central a Little Tokyo, da Culver City a Boyle Hights, da DTLA a Silver Lake, da SM a East LA, da Fairfax a Staples - andate a rendere homage, il tutto sapendo che KOBE sarà sempre con voi, a ricordarvi chi siete e dove vivete.
Long Live The Black Mamba!