L’uscita del suo nuovo libro (Lo sport di domani. Costruire una nuova cultura, add editore) e il ritorno in Italia di Marco Belinelli sono due ghiottissime occasioni per scambiare quattro chiacchiere con Flavio Tranquillo, uno dei giornalisti sportivi più preparati che ci sia oggi in televisione.
Se nella mia testa penso al nome “Michael Jordan”, lo penso pronunciato da lui. Se penso a come mi sono avvicinato e appassionato allo sport made in USA, il primo nome che penso è il suo. Dall’NBA al lockdown, dalle politiche sportive al gender gap, da gara 6 delle NBA Finals del 1998 a Passaparola con Gerry Scotty, Tranquillo non dà mai risposte scontate: pesa ogni parola e ti porta dentro al nocciolo della questione dove tutto, improvvisamente sembra chiaro, semplice, fattibile.
Non possiamo non iniziare questa chiacchierata con il ritorno di Belinelli in Italia. Come giudichi questa operazione?
Non sono sicuro di doverla giudicare. E nemmeno di poterlo fare, in assenza di elementi di fatto. Per ora è il matrimonio di due volontà che si conciliano, quella del club di rinforzarsi e quella del giocatore di trovare la miglior soluzione di mercato a questo punto della carriera. Solo il tempo potrà darci indicazioni, per ora più che banalità (Belinelli è bravo, la Virtus è ambiziosa) non potrei apportare. Concludo dicendo che il basket non è uno sport individuale, e men che mai uno in cui 2+2 fa 4. Belinelli potrebbe avere un effetto enorme, un non-effetto o un effetto negativo sulla Virtus, senza che questo sia prevedibile finché non interagirà con gli altri in campo e fuori.
Quanto può far bene alla Serie A un giocatore italiano che ha vinto un campionato NBA e che soprattutto ha maturato un'esperienza di 12 stagioni negli States?
Di certo ne aumenta l'attrattività, ma trovo poco critico l'approccio di chi interpreta sempre qualsiasi cosa succeda in questa chiave finto-solidaristica del "movimento", una parola che mi piace poco. Non voglio sminuire l'operazione fatta dalla Virtus e il valore del giocatore, ma anche prima dell'arrivo di Belinelli le potenzialità del club erano chiare. Teodosic, Belinelli, Rodriguez, Delaney e chi volete voi non sono salvifici, non sono un regalo per chi è stato buono, non sono il frutto del mecenatismo. Sono ottimi giocatori che firmano contratti con società che hanno la potenzialità per sottoporglieli. Certamente Olimpia e Virtus hanno queste potenzialità, e l'arrivo di Belinelli lo dimostra una volta di più.
Sembrano passate un paio di vite dalla morte di Kobe Bryant e invece è successo quando ancora doveva iniziare tutto il caos della pandemia. Sportivamente parlando che anno è stato questo 2020?
Un anno in cui abbiamo avuto più tempo per pensare a quello che lo sport è davvero, non foss'altro che per il motivo di averne avuto di meno e in condizioni assai più disagiate.
Un flashback: quell'urlo "Michael Jeffrey Jordan" in chiusura di gara 6 delle Finals del 1998: Jazz Vs Bulls. Ancora oggi parlando con i miei amici lo ricordiamo. Che ricordo hai di quel match? Pensi che sia stata quella la telecronaca più bella della tua carriera?
Sono troppo vecchio per pormi il problema della telecronaca e avere una qualsiasi forma di culto della personalità. Quella è stata una partita che, assieme ad altre, rappresenta una pietra miliare dell'evoluzione di un fenomeno. Esserne stato testimone dal vivo è un privilegio, non un titolo di merito. Ho offerto un servizio, come quelli che davano gli asciugamani in panchina, gli uscieri e gli addetti al materiale. In più, l'ultimo a saper giudicare una telecronaca è chi la fa, figuriamoci se parliamo di 22 anni fa. Spero che la miglior telecronaca, ammesso che esista, sia la prossima. E soprattutto che la prossima partita che vedremo, tutti insieme, sia la migliore in assoluto.
Hai da poco pubblicato un libro, nell'introduzione ammetti di averlo scritto durante il (primo) lockdown. Che periodo è stato per te quello? Come lo hai vissuto?
Come tutti, con un dilatarsi di tempi e di occasioni per ragionare, perché all'improvviso si è fermata la routine (nel mio caso NBA e della programmazione SKY pre-virus). È un libro che testimonia anche del cambiamento che tutti abbiamo subito in questa fase.
Nel tuo libro parli di due "sport", uno con la S maiuscola e uno con la s minuscola. Perché questa distinzione?
Perché una cosa è l'essenza del fenomeno, la dizione con la maiuscola, e un'altra la sua manifestazione nella realtà sociale, quella con la minuscola. Non è una questione di superiorità, ma di filosofia. Per stabilire se lo sport che vediamo, facciamo, raccontiamo aderisce o meno a quello con la maiuscola, bisognerebbe prima aver definito quell'essenza. Una questione che io non ho affrontato per tanto (troppo) tempo, assorbito dall' accecante bellezza dello sport con la minuscola. Per questo mi sono sentito in dovere di ragionare su quella definizione e su quell'essenza, sapendo che si tratta di una riflessione complessa, per quanto necessaria e utile.
Mi piacerebbe soffermarmi sul sottotitolo: "Costruire una nuova cultura". Negli anni 90 mi ricordo di un quiz televisivo forse era Passaporala, ma importa poco... in cui un mega campione che sapeva veramente tutto cadde su una domanda di sport e piccato disse che per lui lo sport non era cultura.
Perché in tanti fanno questo errore?
Perché troppo spesso si fa l'errore di ritenere che sport sia solo la pratica agonistica e/o l'esercizio fisico di una disciplina, e basta. Quello è naturalmente sport, ma in realtà ne è solamente una parte. I valori etico-morali contenuti nello Sport generano cultura, ma non necessariamente cultura "buona". Anzi, proprio le tensioni agonistiche possono generare una cultura "cattiva". Per andare nella giusta direzione ci vogliono metodo e impegno, laddove invece troppo spesso si ritiene che per diffondere questa cultura sia sufficiente un fischio dell'arbitro e una palla a due, poi il resto vien da sé. Non è per nulla così: senza un lavoro di preparazione, senza dare una gerarchia a quei valori, senza il confronto continuo, non esiste cultura, men che mai sportiva. Non è mezzo gaudio, ma è mal comune, il fatto che questo assunto sia valido, purtroppo, anche in altri contesti.
Elisa Bartoli, la capitana della Roma calcio Femminile mi ha raccontato che da ragazzina la maestra e le mamme delle sue amichette le chiedevano "perché giochi a calcio?" E lei che si domandava se le avrebbero fatto la stessa domanda se avesse giocato a pallavolo o fatto danza. E poi penso alla boxe che in Italia fino al 2001 non poteva essere praticata a livello agonistico dalle donne. Non era normata, quindi di fatto era illegale. La cultura deve anche aiutare a far diminuire il gender gap? Come?
Il gender gap è una forma di discriminazione, che affonda le sue radici nelle profondità della nostra società. Non ho ricette magiche, ma sono convinto che solo interventi strutturali possano davvero incidere. Detto che tutto quello che viene fatto oggi è utile e che la coscienza rispetto a questo ed altri problemi (per fortuna) è maggiore che in passato, diffido dallo sperare di risolvere questioni di giustizia sociale con iniziative-manifesto, mozioni di affetti, convegni, interventi di aziende private ed elemosine assortite. Alcune di queste attività danno un aiuto importante nel breve periodo, ma siamo già nella fase in cui l'alternativa è tra cambiare passo (smettendo di pensare al consenso e al breve periodo) e accontentarsi di un’illusoria appartenenza all'esercito dei buoni.
Ultimamente mi è capitato di ragionare sul fatto che forse lo sport in Italia è uno dei pochi ascensori sociali che ancora funziona. Sei d'accordo?
Non troppo, per la verità. Pio La Torre è l'esempio di un bambino poverissimo e discriminato che ha superato ostacoli "impossibili" per conseguire il riscatto sociale. Il fatto che, nonostante il barbaro e vigliacco omicidio che lo ha fermato, la sua storia sia meno celebrata di quella di LeBron James non mi fa perdere di vista che lo sport non è l'unico campo in cui si registrano "miracoli" del genere. Attenzione, tra l'altro, a ritenere che uno o dieci casi eclatanti siano espressione di un concetto, quello di ascensore sociale, che diventa pieno solo quando si trasforma in un processo pensato, gestito e migliorato con continuità da una politica davvero responsabile.
Per fare una rivoluzione culturale-sportiva in Italia cosa serve?
Pianificare, programmare ed eseguire. Rimboccarsi le maniche e ragionare con una visione completa. Buttare nell'indifferenziata i molti pregiudizi (il denaro rovina lo sport, l'importante è partecipare, bisogna sostenere le imprese sportive) che fanno parte di una retroguardia culturale sconsolante. Voler bene allo sport con i fatti, usando le parole solo per capirsi, non per ingannare o manipolare.