Sono sempre stato convinto che chi viene dalla Provincia ama il calcio in maniera diversa rispetto alle grandi città. Siamo sempre e costantemente, sportivamente parlando e non solo, sopra una montagna russa di emozioni fatta di (poche) gioie e tanti, tantissimi, troppi, innumerevoli e soprattutto non meritati dolori. Quando si parla di felicità ci riferiamo a una partita in particolare, alla sconfitta degli acerrimi nemici, a un gol memorabile, a un piazzamento importante, a un calciatore arrivato. Non esistono coppe alzate, scudetti. A Livorno difficilmente siamo andati oltre il secondo turno di Coppa Italia. Già la prima partita dell’anno, in piena estate e rigorosamente a torso nudo, era già un 2 fisso.
Fortunatamente nella mia top 3 delle gioie amaranto (seconda solo a quel Livorno-Milan 1-0 del 2004/05 con gol di Corrado Colombo) posso vantarmi di aver visto Alessandro Diamanti. Arrivò dal Prato con quei rasta biondi e ordinatamente disordinati, i tatuaggi più improbabili in ogni parte del corpo, la faccia da furbo e le scarpe slacciate. Pagato poche migliaia di euro, in pieno stile Aldo Spinelli. È bastato vedere come accarezzava il pallone con quel mancino per capire che sarebbe stato amore a prima vista. Alessandro Diamanti rispecchia appieno l’animo dei livornesi… e anche quello di MOW: grintoso, tecnico, ma soprattutto fuori dagli schemi. Insomma, l’ultimo, vero, fantasista. Un numero dieci con il 23 dietro alle spalle. Credo che nessuno, vedendolo dal vivo o in televisione, abbia mai indovinato una sua giocata. Manco ci ha provato, forse, sapeva di perdere già in partenza.
Le punizioni, i cambi di gioco, testa alta e andare avanti con quel mancino benedetto, i gol da centrocampo, da fuori area, da posizioni impossibili, sterzate che non si vedono neppure ad Assen. Alessandro Diamanti ci ha fatto innamorare anche dei calci d’angolo. Livorno, Londra (West Ham), Bologna, Firenze e Palermo. In mezzo la Cina. “Mi piaceva il progetto...”. Uno come Alino non si è mai nascosto, anzi, non si è mai vergognato di dire la verità. L’ho amato a undici anni, mi ha fatto godere con la Nazionale agli Europei con il rigore decisivo contro l’Inghilterra, mi ha fatto piangere quando è tornato “a casa” dieci anni dopo. Più grande, maturo, senza quei rasta e tutto biondo, senza riccioli. Ma il solito sorriso sulle labbra.
Perché Alino ci ha insegnato due filosofie che diamo sempre per scontate: le “good vibes” e il “blocco serenamente”. Lui non ha mai voluto noie, gente intorno che si permettesse di scombussolare la sua oasi interiore di tranquillità. Lo vuoi fare? Non c’è problema, io serenamente… “ti blocco”, ti faccio fuori da tutto, non voglio sentir più parlare di te. Alessandro Diamanti è un esempio di chi si è goduto e si gode la vita, ma che ha lavorato tantissimo, fatto sacrifici, rinunciato anche a cose più grandi di lui. Ha saputo scegliere alla perfezione le strade che il destino gli ha messo davanti.
Alino Diamanti però in campo si trasforma, è un altro. Il campione vero l’ho visto un giorno agli allenamenti. Fuori dalle telecamere, dai video, fuori da tutto. Stavo facendo uno stage nell’area comunicazione del Livorno Calcio e mi capitò di andare al centro Coni di Tirrenia dove gli amaranto ogni giorno si allenavano. Stava entrando in campo, era a pochi metri dal verde, dietro la porta. Parlava con un ragazzino, un titolare, ma pur sempre un ragazzino. Lo guardava con gli occhi azzurri dritto nelle pupille, gli stava dando un consiglio. Una cosa semplice, magari sentita e risentita, ma dall’espressione, dal tono pacato e deciso della voce, da Diamanti, mi sembrò un verso della Bibbia: "Mentre marchi un attaccante sul corner mettigli il tacchetto sopra il piede, poi se ti dice qualcosa rispondigli: non mi devi rompere il cazzo". Lo disse due volte. Piano, quasi sussurrato come per non farsi sentire. Ma quel modo di dirlo… fosse stato per me sarei andato a marcare tutti gli attaccanti amaranto pur non arrivando al metro e settanta. Non sarebbero passati comunque. Sono sempre stato convinto che chi viene dalla Provincia ama i suoi giocatori in maniera diversa rispetto alle grandi città. Lo so, l’avevo già detto alla prima riga, vi risparmio la fatica di tornarci. Ma è così. Lo vorrei scrivere mille volte e lo rifarò. Sono sempre stato convinto che chi viene dalla Provincia ama i suoi giocatori in maniera diversa rispetto alle grandi città. Non ci interessano i campioni, chi ci porta in Serie A o ci salva all’ultima giornata di Serie B, chi illumina le partite con le sue giocate o chi esulta senza maglia sotto la curva più dei tifosi stessi. Ci basta solo chi mette il cuore per una piccola città, come se fosse nato lì, come se fosse l’ultima cosa da fare prima di morire. E fortunatamente Alessandro Alino Diamanti ha fatto tutto questo.
Quindi grazie Alino per avermi fatto toccare il cielo con un dito, per avermi fatto tornare a respirare dopo anni di apnea, per aver fatto sognare la Provincia, per aver dato voce agli str***i come noi che festeggiamo le salvezze e ne andiamo fieri. Ma soprattutto grazie per averci fatto capire cosa significa essere un dieci con il 23 dietro le spalle. E sicuramente adesso che sei arrivato a giocare l'ultima partita… da quando Alino non gioca più non sarà davvero più domenica. E sì, ascoltatevi questo pezzo con Marmellata #25 di Cesare Cremonini. Perché ogni tanto, piangere fa bene.