Mancano tre minuti alla fine del secondo turno di libere del venerdì, Marc Marquez ha appena lanciato la moto contro un incolpevole Johann Zarco. Lo vedi in diretta e ti spaventi, perché dopo una botta simile un pilota rischia di non rialzarsi più. Lo rivedi una prima volta e capisci come è andata: Marc perde l’anteriore, è una chiusura secca dell’avantreno alla staccata di curva 1. Johann, che in quel momento sta entrando in pista, si trova un proiettile arancione tra la ruota e il motore. Vola lui e vola anche - in pezzi - la sua Desmosedici, mentre Marc si rialza e dopo un’occhiata al francese corre ai box per prendere la seconda moto. Un quarto d’ora prima, l’otto volte campione del mondo aveva alzato vigorosamente il dito medio verso la moto che - per la seconda volta in un turno di un’ora - ha tentato di per terra. A Taka Nakagami è andata peggio, la sua Honda lo ha scaricato a terra provocandogli una frattura che di fatto rende Marc Marquez unico pilota Honda in pista già da domani.
Mentre sui social è già partito il tiro al piccione - doveva fermarsi ad aiutare Zarco, è fuori controllo, ucciderà qualcuno e via dicendo - a noi viene in mente che anche un altro fuoriclasse con gli stessi colori ragionava così. Siamo a Donington ‘93, Mick Doohan battezza male la staccata alla variante del ponte Dunlop e cade trascinando con sé Kevin Schwantz e Alex Barros. Poi si rialza, trascinando la gamba come uno zoppo rientrando al box. Stessa energia da dominatore, stessa freddezza. Marc in conferenza stampa ha spiegato bene il suo punto di vista: “Se qualcuno ha una responsabilità, quello è Zarco. In curva 1 si cade spesso e con la pista umida è ancora più facile. Se non sono andato subito da lui è perché avrei rischiato di creare una situazione pericolosa, rendendo anche più difficile il lavoro dei marshall”. Non contento di avergli rotto in due la moto e di averlo visto agonizzare nella ghiaia ha deciso di affibbiargli questa responsabilità. Che può essere verosimile, ma suona più o meno come una scrollata di spalle dopo aver investito un gatto in mezzo alla strada.
Ecco perché da Marc Marquez, oggi come ieri, possiamo imparare qualcosa. Possiamo imparare a provarci, a sacrificare le apparenze per essere noi stessi e andare più lontano: giù la maschera signori, questo sono. Lui lo fa in continuazione, immolando ogni giorno la sua immagine sull’altare del sogno: arrivare, vincere, per Marc Marquez è tutto quello che conta. Pazienza se a qualcuno non piacerà, l’eleganza viene dopo il risultato, esattamente come per gli ingegneri che riempiono di ali ed appendici i loro prototipi. Prendi la scia se da solo non ci riesci. Chiama in Giappone, chiedi ai dirigenti un incontro. Picchia per terra più volte, torna ad attaccare. Marc Marquez è un demonio e non ha pietà per nessuno, anzi: è felice che si sappia di questa sua inclinazione. E no, essere così senza aver vinto otto titoli mondiali difficilmente ci renderebbe persone migliori. Ma questo atteggiamento, questa mentalità, ci insegna a buttare giù la facciata, a rinunciare al compromesso. E che ogni tanto anche un dito medio in mondovisione può dare una mano.