E’ dato per fatto ed è più che credibile. Perché che Ducati fosse in netto vantaggio rispetto a Yamaha per fornire le moto al Team VR46 Aramco il prossimo anno in MotoGP era più che noto e perché i tempi sono quelli che sono e lasciare le cose come stanno è più conveniente e meno laborioso per tutti. Ecco perché la notizia dell’accordo trovato tra la struttura della VR46 e quella di Ducati non ci sorprende più di tanto. Nonostante Valentino Rossi avesse dichiarato, appena 48 ore fa, che tutto era ancora in gioco e che Ducati e Yamaha avevano le stesse possibilità. La firma sul contratto, a quanto si dice, ancora non c’è, ma fonti autorevoli come la Gazzetta dello Sport danno l’accordo per fatto, tanto da azzardare un annuncio ufficiale dopo il Mugello.
A sorprenderci, però, non è la D di Ducati accostata alla V e alla R di Valentino Rossi. Ma un’altra D: quella di “distacco”. Sì, perché il nove volte campione del mondo è sempre apparso molto freddo rispetto al progetto del team che porterà il suo nome. Ha più volte spiegato di averlo voluto fortemente, ma anche di essersi tenuto lontano da ogni trattativa e dai tavoli in cui si sono prese le decisioni. Qualcuno ha anche azzardato che questo atteggiamento fosse figlio della volontà di Rossi di non accostare troppo il proprio nome a quello del principe saudita che, a detta dei soliti maligni, sta investendo nello sport per mascherare la scarsa attenzione verso i diritti civili nei paesi arabi. Potrebbe anche essere, ma francamente la politica vorremmo tenerla fuori. E anche Valentino Rossi non ci sembra uno che bada troppo a queste cose, anche perché si tratta di un accordo commerciale, di una sponsorizzazione, che c’entra meno di niente con questioni che esulano dallo sport.
Ma allora perché Valentino Rossi, anche nei giorni scorsi in conferenza stampa, ha ribadito di non essere abbastanza al dentro delle trattative e di non essere lui la persona giusta a cui chiedere notizie sul Team VR46? Con una battuta ha pure liquidato un’altra domanda sulla sua squadra, spiegando che lì ci sarà da lavorare e che lui non è uno avvezzo a farlo e anche Luca Marini, suo fratello, è stato molto chiaro: “Non credo che vedremo Vale al muretto del suo team. Se smetterà si prenderà almeno uno o due anni di pausa”. Insomma, sia Rossi che coloro che gli gravitano intorno sembrano voler mantenere una distanza tra il pilota nove volte campione del mondo e un team di MotoGP che, però, porterà il suo nome.
Fonti vicine al paddock dicono che questa situazione apparentemente così anomala in realtà nasconde una necessità: tenersi una porta aperta. Saltato l’accordo con Yamaha (sembrerebbe a causa della volontà della casa di Iwata di non lasciare carta bianca sulla scelta dei piloti), Valentino Rossi potrebbe trovarsi davanti ad una “non scelta”. Smettere non diventerebbe una decisione personale, ma una sorta di imposizione dettata dalla contingenza e dallo sviluppo del suo stesso progetto. E l’unica via d’uscita sembra essere quella, appunto, di mostrarsi disinteressato, o disinteressarsi direttamente, da ciò che fa la sua “azienda” VR46. Staccare in maniera vistosa e evidente, quindi, la figura del pilota, che a quel punto potrebbe anche continuare con Yamaha, da quella dell’imprenditore che ha totalmente delegato ad altri (di cui si fida ciecamente) i suoi affari.
In questo modo le cose resterebbero, di fatto, come stanno ora. Anche adesso, in fondo, Valentino Rossi è proprietario di un team che corre con una moto Ducati e, contestualmente, è pilota per un team legato a Yamaha (pagato da Yamaha). Se, poi, dovesse decidere di smettere, sarà una sua libera scelta e non un qualcosa di dettato dall’evolversi delle situazioni.