Dopo Silverstone si è palesata una saldatura per certi versi inedita, tra i piloti Ferrari e i loro tifosi: un sentimento comune di frustrazione. Da troppi anni non si vince, si pasticcia, alle volte ci si illude e alle volte si fanno anche delle grandi figuracce. La storia della Ferrari è attraversata da momenti più o meno buoni, ma è assolutamente certo che negli ultimi quindici anni tutto questo viene enfatizzato radicalmente da una pressione mediatica senza precedenti. Una vera e propria guerriglia. Non si tratta più infatti semplicemente di polemiche giornalistiche, ma di un’espressione libera (e confusa) di emozioni scomposte e irrazionali liberate senza controllo grazie alla pervasività dei social e di una società sempre più affamata di “rivelazioni” e presunti complotti.
A farne le spese sono principalmente quegli oggetti culturali e sociali fortemente emotivi, capaci cioè di essere luoghi della ricaduta (e dell’esplosione) di passioni e desideri. E in questo la Ferrari è certamente tra le prime al mondo. Tifosi legati esistenzialmente ad un marchio mitico che coagula al suo interno le aspettative di milioni di persone. È innegabile, se la Ferrari vince milioni di persone sono più felici e questo è positivo in quanto genera un effetto sociale virtuoso. Certamente questa dinamica è nella sostanza limitata, non cambia la vita a nessuno, ma di certo aiuta l’umore e qualche slittamento emotivo lo scatena. Al punto da crearsi seppur in chiave negativa, un’affinità emotiva tra Charles Leclerc e Carlos Sainz, una frustrazione comune che la dice lunga su quanto la vita di ognuno sia cosa delicata e connessa, e di conseguenza da maneggiare con estrema cura.
Anche quando si parla di vere e proprie star che siano ingegneri o piloti di formula uno, i messaggi passano e arrivano e spesso nella loro gratuità fanno male e di certo non aiutano a migliorare le cose. Un tempo si sarebbe detto che si trattava di avere rispetto, oggi quanto meno sarebbe necessario contenersi, limitarsi in questa forma di irrazionale emotività che sfocia non di rado nell’insulto social (un tempo almeno, non che fosse elegante, ci si limitava ai fischi in presa diretta).
Ora dopo la vittoria di Le Mans, improvvisamente e grazie all’impatto che sa generare la Ferrari, il Wec è sulla bocca di tutti, più o meno appassionati. Una vera e propria boccata d’aria fresca. Non si tratta di competenza in purezza, ma di bisogno di felicità, che è anche diverso dal bisogno di vincere. Se felicità e vittoria coincidono per un pilota, per un tifoso la vittoria è il mero strumento per una felicità comune e condivisa. Un modo per ritrovarsi in mezzo agli altri in una comunità, anche quando magari nella vita di tutti i giorni si fa una fatica bestia, da odiare ognuno, uno ad uno: quello sul tram, quello al bar, quello in autostrada.
Nei giorni del Wec di Monza, la giornalista Giulia Toninelli ha scattato così una foto a James Calado, una foto fatta insieme a mille altre foto scattate sulla linea di partenza. Ma quella foto ha rivelato altro, una mancanza, un dolore che appartiene, seppure per gradi molto diversi sia agli addetti ai lavori che hai tifosi. James Calado colto di profilo a tre quarti - incredibilmente simile a Michael Schumacher - rivela il motivo per cui dentro e attorno alla Ferrari va elaborato un dolore, come avvenne per Villeneuve seppure in condizioni molto diverse. Ma va compreso che per far funzionare la tecnologia occorrono uomini consapevoli che il gioco è ad alto tasso di rischio, anche e soprattutto emotivo.
È un attraversamento necessario che vede coinvolti nel conflitto e in armonia piloti e squadra, ma anche tifosi e appassionati. Provare a capire prima di sbraitare, giudicare, insultare (sì proprio quel “provare a capire"). Provare a ricordarsi che si viene tutti da quel tempo lì, da quella fatica eroica. Dalla gratuità di gesti che solo campioni e artisti sanno offrire. E che il fatto che lui manchi a tutti al punto da vederlo come in un’allucinazione collettiva nuovamente vestito di rosso, vuol dire che si fa tutti parte dello stesso sogno dentro al quale nessuno può essere escluso, ma in cui ognuno può fare la sua parte, per un pezzo più o meno grande.