La città eterna ci ha riconsegnato la sfida che sulla carta dovrebbe trainare i prossimi quindici anni di tennis, almeno. L'ha fatto in una domenica pomeriggio di cielo azzurro, col sole che entrava obliquo - di taglio - sul Centrale del Foro Italico, creando riflessi simili a quelli che si dovrebbero sperimentare in paradiso. Quattro pareti umane ad avvolgere un campo in terra rossa, su cui sterzavano leggiadri loro due: Jannik Sinner e Carlos Alcaraz. Il classico per noi, el nuevo clasico per la Spagna dopo i quaranta "Fedal", la combinazione più attraente per quel mondo che strabuzza gli occhi di fronte ad un rettangolo di dimensioni otto metri per ventitré.
Potrebbe bastare così, eravamo già contenti così. Eppure c'erano diverse coincidenze chiamate a rendere quest'undicesimo capitolo della sfida tra Jannik Carlos un punto di svolta della loro stessa saga. Era il primo incontro del 2025, era il rientro di Sinner dopo la squalifica per doping, il rientro di Alcaraz dopo l'infortunio all'adduttore patito a Barcellona, la primissima finale tra i due per un trofeo di un big title, come dicono quelli bravi (che separano i quattro Slam, le Finals e i Masters 1000 dagli ATP 250 e 500). Proprio nel cinquecento di Pechino dello scorso autunno, lo spagnolo aveva alzato la coppa dopo aver inflitto una maestosa serie di sette punti consecutivi nel tie break decisivo a Sinner, rimasto quasi impotente di fronte alla versione ingiocabile del rivale. In quell'occasione, Carlos aveva rovinato una delle statistiche d'oro di Jannik, reduce da 17 tie break vinti negli ultimi 18 disputati. L'ha normalizzata ulteriormente oggi, al termine di un primo set tattico, in cui i due si sono marcati, studiati, cercando di soffocare i propri (pochissimi) punti deboli e di non strafare con quelli forti: Alcaraz si è messo giù di pazienza e buona lena sin dal primo game, sbloccando gradualmente la potenza insita nel dritto, mentre Sinner variava più del solito al servizio e approfittava della situazione favorevole non appena lo spagnolo tirava qualche centimetro più corto del normale. In poche parole? Un livello altissimo, l'errore un'eccezione, una partita di tennis giocata da una prospettiva decisamente rialzata rispetto a quelle viste nelle ultime settimane.
L'equilibrio si è rotto quando a Jannik sono capitati tra le mani due set point: uno l'ha rintuzzato con una risposta sul nastro, l'altro si è spento in corridoio per colpa di un rovescio in salto. Dopodiché, Alcaraz ha deciso di cambiare marcia, di innestare quella modalità pechinese che spaventa, che ti insinua il dubbio secondo cui - forse - solamente una persona su questo pianeta sia in grado di giocare bene a tennis. Ha cominciato a scagliare vincenti da ogni parte del campo, ad accarezzare smorzate come se fossero pallottole di carta da gettare delicatamente nel cestino appostato appena dietro alla scrivania. Col servizio, nel tie break, ha spolverato due mezze righe che Jannik ancora si sogna, a rete si è concesso il lusso di giocare una stop-volley di rovescio, in controtempo, con cui ha vinto il primo set. Nel secondo, la distanza si è irrimediabilmente ampliata, un po' perché il numero uno diventava meno reattivo negli spostamenti di gambe e apparentemente più preda di quei fastidi patiti in semifinale contro Tommy Paul, un po' perché Alcaraz continuava a giocare sulle ali dell'entusiasmo e a concedere errori solo in situazioni di netto vantaggio, che tale è rimasto: 6-1 a Sinner, il quarto 6-1 subito da Sinner negli ultimi tre anni, il secondo in due giorni.
Sorge spontaneo domandarsi: quanto incide questo 6-1 di forza, di ineccepibile tracotanza tennistica, nella storia condivisa di Sinner e Alcaraz? Carlos va in fuga 7-4 negli scontri diretti, vince la prima finalona del romanzo, per di più a Roma, a casa di Jannik. È una bella botta assestata alla narrazione dominante del dualismo, secondo cui Alcaraz può dare il meglio di sé solo in presenza di Sinner, il faro che lo tiene sul pezzo, in partita, attaccato al ranking ATP e innamorato del gioco che Madre Natura gli ha instillato nelle vene. Lo scontro del Foro in parte conferma quest'ipotesi, in parte la smentisce: Carlos senza Sinner ha vinto Montecarlo e Rotterdam, contro Sinner ha abbattuto una distanza che nei tre mesi di squalifica è stata machiavellicamente amplificata per creare attesa, pathos, solennità attorno alla figura mancante del numero uno.
Non che il gap adesso si sia improvvisamente azzerato, perché Jannik a Roma ha pagato la disabitudine al ritmo partita con vesciche e ruggini visibilmente insolite. E allora, la distanza tra i due, qual é? Non quella del ranking attuale, più probabilmente quella vista al termine della finale romana: Sinner che sceglie di abbracciare Alcaraz senza che ci sia una rete a separarli, Carlos che insiste affinché Jannik parli in italiano alla sua gente. Punti di contatto di una rivalità elastica, in cui i divari affettivi e puramente agonistici dei due protagonisti si allungano, si accorciano, vanno a strappi, modificandosi a margine di ogni scontro diretto. Questo, attesissimo, è stato l'undicesimo. Adesso, per favore, non fateci aspettare troppo.