Nel 1998, un kart vestito dell’argentea livrea della McLaren era un sogno proibito per moltissimi. Ma non per il ragazzino orgoglioso pronto a figurare in una foto di classe atipica, presagio di successi futuri. Con indosso la stessa tuta dei piloti titolari e degli altri giovani del vivaio, si sentiva un supereroe, maledettamente vicino al sogno della vita, eppure incommensurabilmente lontano. Non poteva saperlo, Wesley Graves, che, a differenza del collega che gli stava accanto, Lewis Hamilton, per lui l’affiliazione con la McLaren sarebbe stata l’inizio della fine.
Quando aveva cinque anni, Wesley passava il suo tempo imitando il sound delle macchine. Come se fosse un richiamo atavico. Venuto da chissà dove, perché in famiglia nessuno era interessato al mondo delle corse. Non riusciva a pensare ad altro, Wesley. Era un mantra che scandiva le sue giornate, un’ossessione che non riusciva a staccarsi di dosso. E da cui non si sarebbe affrancato nemmeno quando i suoi sogni si sarebbero vanificati. Quei suoni sarebbero rimasti nella sua mente, come tragiche sirene che lo attiravano verso un passato da cui non si poteva liberare in alcun modo.
Metterlo sui kart fu l’unico modo per sublimare quella passione venuta dal nulla. A sei anni sfrecciava già a cento all’ora. A nove vinse un campionato regionale. Amava partire dal fondo e librarsi verso il gradino più alto podio, Wesley, mangiandosi la concorrenza e assaporando ogni sorpasso. Esercitava una superiorità tale da spingere i genitori dei suoi avversari ad accusare i Graves di barare con il kart. Merito di quella spinta atavica, bruciante. Di quel talento che travolse anche i suoi genitori. Soprattutto Steve, suo padre. Disposto a tutto, pur di vedere Wesley vincere.
Il motorsport divenne una droga per entrambi, adrenalina iniettata direttamente nel cuore. Non potevano fare a meno. E poi, nel 1998, arrivò la grande occasione della vita, la chiamata della McLaren. Ma quella che sembrava la chance per andare lontano si trasformò in una trappola. Qualcosa in Wesley si ruppe. Non riuscì ad adattarsi al suo nuovo kart, e cominciò ad annaspare, mentre Lewis, di un anno più grande, trovava il suo habitat naturale in una nuova classe, la Junior Yamaha. A fine 1998, la McLaren decise di lasciare Wesley a casa. Fu l’ultimo giorno della sua carriera.
Mancavano i soldi. I Graves avevano speso tutto, e non c’erano sponsor disposti a dare fiducia a Wesley. Per lui fu come sprofondare in un buco nero. La sua vita subì una deflagrazione devastante. Cominciò a cacciarsi nei guai a scuola, tormentando i compagni per placare il suo, di tormento interiore. L’impossibilità di portare a compimento quella che percepiva come la sua vocazione lo distrusse. Sentiva di essere nato per fare il pilota, e non si immaginava di poter indossare altri panni. Tanto da non accettare nessun’altra occupazione. Un talento come lui, dopotutto non poteva certo abbassarsi a trovare un’alternativa.
E poi, nel 2007, arrivò il colpo al cuore più grande, vedere Hamilton in Formula 1. Ci sarebbe dovuto essere lui al suo posto, se lo sentiva nel profondo. Non poteva nemmeno guardarli, i Gran Premi, da quando Lewis era diventato titolare in McLaren. La fama, i riconoscimenti, gli stipendi da capogiro se li meritava lui, non l’impostore che aveva prevalso. Solo perché - Wesley ne era convinto - alla McLaren un pilota nero faceva gola. Schiacciato dalla sua stessa rabbia, non riusciva ad accettare di aver fallito.
E Wesley rimase così una nota a piè di pagina nella storia della McLaren, un nome riportato sulla didascalia di una vecchia foto impolverata. Insieme a Mika Hakkinen e David Coulthard, oltre ai giovani del vivaio impegnati nelle categorie minori, c’erano anche loro due. I pulcini del gruppo, poco più che bambini, impacciati davanti alla macchina fotografica. Lewis e Wesley, con i suoi occhiali giganteschi. Chi sarà quel ragazzino accanto a Lewis, si chiede inevitabilmente chi oggi, quasi 23 anni dopo, guarda quell’immagine.
Chissà che fine ha fatto Wesley. L’unica intervista rilasciata alla stampa, al Guardian, risale al 2007. Di lui si sono poi perse le tracce. Qualcuno su Reddit sostiene che abbia ripreso a correre sui kart, che abbia due figli. Viene da chiedersi cosa pensi della carriera di Hamilton, ora che Lewis ha vinto molto di più di quanto tutti, lui stesso compreso, avrebbero potuto immaginarsi qualche anno fa. Chissà se nella sua mente riecheggiano ancora le stordenti melodie delle auto che tanto amava. Continuerà a essere un supplizio per lui, o avrà trovato pace, cullandosi nei ritmi che incendiavano la sua passione quando era bambino?