Le immagini parlano, e le immagini sono quelle di una città “dove nulla è rimasto intero”, perché “se c’è sulla Terra un luogo maledetto, questo luogo è Mariupol”, nella frase che, ieri sera a Piazza Pulita su La7, ha fatto da tappeto ai primi secondi dell’ultimo reportage di Gabriele Micalizzi dalla città del Donbass occupata dai russi. Macerie che si contrappongono ai bambini sulle altalene, la vita accanto alla morte, la normalità del quotidiano che surrealmente riappare laddove di normale non c’è nulla.
Le immagini parlano, appunto, perché sono testimonianza vera, diretta, sensibile, ma le parole contano e pesano e ieri Micalizzi era in studio, dopo 83 giorni accanto alle truppe separatiste filo russe del Donbass, dove ha documentato la guerra in quello che viene definito un viaggio. Un viaggio infernale, però, le cui sensazioni vanno spiegate perché quelle, nelle immagini del fotoreporter, le si possono solo intuire. Micalizzi di guerre ne ha coperte diverse, ma questa è differente sostanzialmente per un motivo, forse, sottovalutato: “Ciò che ha scioccato tutti di questa guerra è vedere che certe cose stanno accadendo in un territorio che assomiglia al nostro. Quelle città somigliano alle nostre dal punto di vista urbanistico, per come sono fatte le case, perché ci sono i nostri stessi negozi, perché i bambini assomigliano ai nostri. La differenza con le guerre del Medio Oriente è qui, nell’immedesimazione”. Sarà anche lontana una manciata di migliaia di chilometri, ma la percezione quella è e non si tratta di una sottolineatura banale.
Le immagini, si diceva: il teatro neoclassico simbolo della città e le sue rovine (“quando sono entrato la prima volta stavano bombardando e io cercavo di scendere sotto per vedere se c’erano corpi: non avrei mai dovuto farlo, è un modo per mettersi in pericolo. Lì ho avuto paura”), le persone che sono rimaste e tentano di riorganizzarsi, le parole di altre che sono riuscite a lasciare le acciaierie Azovstal dove erano ostaggio del battaglione Azov e oggi si trovano, comunque, ostaggio dei russi che occupano e che festeggiano in una città in agonia. Sono i suoni e i colori delle celebrazioni del 9 maggio, il giorno della Vittoria: parate, cori, insegne, simboli che si contrappongono al verde militare, al grigio delle macerie sparse in ogni dove, al nero di ciò che ha smesso di bruciare. “A Mariupol sono rimaste persone pro-Russia, altre che vedono comunque con favore l’annessione ma anche ucraini che per svariate motivazioni vogliono rimanere nella loro città o che non hanno alternative. Sono popoli fratelli, il problema è che sono in guerra ma vorrebbero solamente la pace. Io la chiamerei una guerra civile anche se tra le persone che vivono lì non ci sono buoni e cattivi. La gente che intervistavo spesso non sapeva nemmeno chi fosse a sparare: la realtà della guerra è che a rimetterci sono sempre i civili”. A Mariupol il controllo è dell’esercito russo sul cui equipaggiamento, sin dall’inizio del conflitto, ci si è interrogati. Insufficiente, vetusto? “Io non ho visto tutta questa difficoltà, sebbene sia necessario dividere l’esercito in vari livelli: quello di stanza a Donetsk effettivamente era meno equipaggiato, ma non si può dire la stessa cosa dei marine russi o dei ceceni, per esempio”.
Mariupol, così la definisce Formigli, è “il cuore sanguinante d’Europa”. “Sono stato spesso nei cunicoli - annota Micalizzi - con le persone che cercavano di sopravvivere, uscivo e vedevo cadaveri per strada e, vicino, persone che cercavano di andare avanti perché la vita deve continuare. La vita e la morte; quando sei lì a fare questo mestiere sei il filtro tra la realtà e lo schermo ed è importante farlo. Il problema, alla fine, è ciò che assorbi e i segni che ti lasciano il disagio e l’odore acre della morte che senti sempre. Ed è alienazione, in questo momento, ciò che provo".