In un luogo dove dovresti sentirti più protetta che altrove - un ospedale, un reparto di Radiologia - una ragazza di 23 anni si sente dire: “Se vuoi toglierti il reggiseno, ci fai felici tutti”. È successo a Roma, al Policlinico Umberto I, durante una TAC. Lo racconta lei stessa in un video in lacrime, diventato virale in poche ore; l’ospedale ha comunicato di aver avviato un’istruttoria interna per valutare eventuali sanzioni. Riavvolgiamo il nastro: la giovane entra per un’emicrania, chiede - legittimamente - se il reggiseno con ferretto possa interferire con l’esame. Prima risposta professionale: “Non serve, è una TAC cranio”. Subito dopo, la scivolata: occhi ai colleghi maschi, la strizzata d’intesa, la frase “ci fai felici tutti”. Non è una “goliardata”, non è un “non voleva offenderti”: è abuso di posizione e confine, perché il corpo della paziente non è una barzelletta da spogliatoio portata dentro una sala diagnostica. E come sempre, al danno si aggiunge la beffa: lei denuncia, e parte il rituale stanco del “victim blaming”. C’è chi scrive “attrice da Oscar”, chi minimizza: “fatti una risata”, “esagerata”. Cioè: l’hai subita, l’hai raccontata, e adesso devi pure stare zitta. È il solito copione con un titolo preciso: spostare il focus dal gesto all’emotività di chi lo denuncia. Ora, la domanda: ma come siete messi, uomini, se nel 2025 vi scappa ancora la battuta sul reggiseno davanti a una ragazza in camice, infissa sul lettino, in uno spazio di cura? Davvero vi serve ancora il “gradimento della claque” per sentirvi vivi? Davvero l’unico modo di fare branco è a spese del corpo altrui? La verità è che quelle parole non sono “niente”: sono la punta visibile di una montagna fatta di micro-umiliazioni normalizzate. E ogni volta che passano lisce, il conto lo pagano le donne - e la qualità delle cure per tutti.

Questo non è un processo all’intera categoria maschile; è un invito esplicito alla responsabilità di chi è testimone. Perché nei racconti di Marzia c’è anche l’eco del silenzio attorno: nessuno che redarguisce, nessuno che interrompe il teatrino. Il famoso “non sono stato io” non basta: serve il “sono stato io a fermarlo”. In corsia come in ufficio, sul cantiere come nello spogliatoio. E alle istituzioni sanitarie: l’“indagine interna” è un inizio, non un alibi. La prevenzione non si affida alla fortuna. Si scrive e si applica: formazione obbligatoria su linguaggio e confini per tutto il personale (tutto, anche chi “non è tecnico” ma sta in stanza); chaperone o doppio operatore nei momenti di vulnerabilità del/della paziente; canali di reclamo semplici, rapidi, protetti; sanzioni chiare, pubbliche (nel rispetto delle norme), e soprattutto dissuasive. Infine, una cosa semplice ai colleghi uomini: il meme del “non si può più dire niente” è vecchio come il cucco. Si può dire tutto, tranne trasformare il corpo di chi soffre in intrattenimento. Se vi scappa la battuta, trattenetela. Se la sentite, spegnetela. Se l’avete sempre lasciata passare, oggi è il giorno buono per smettere. Marzia ha fatto la sua parte, esporsi non è scontato. Tocca a noi - sì, soprattutto a voi - far sì che il prossimo video non debba nascere. Perché un reparto medico pieno di gente adulta che ride sul reggiseno di una paziente non è “leggerezza”: è una figuraccia culturale collettiva. Nel 2025, ancora? Dai su. Cambiate canale.
