Il noto attore Luca Barbareschi ha rilasciato ieri un’intervista a Repubblica che ha suscitato non poche polemiche. Quello che però mi ha colpito (non che il resto non fosse importante) è la frase “Sono stato gay”. Consiglierei a Luca e a chi è interessato all’argomento il libro Gay si nasce o si diventa?, perché l’omosessualità non è una moda, un abito firmato che indossi e poi rivendi su Vinted, non è una malattia come la mononucleosi da cui si guarisce, ma un orientamento sessuale, che tuttora molti considerano contronatura, mentre la scienza ci dice che la genesi è contenuta all’interno del nostro patrimonio genetico. Motivo per cui nulla di strano sotto il sole, anzi. Non ci sono, per ora, dati che confermino un gene in particolare, ma l’obiettivo della ricerca è proprio quello di arrivare a normalizzare un qualcosa che per molti normale non è. Bastano poche parole, spesso, dette nel modo sbagliato o nel momento sbagliato, soprattutto da persone seguite, famose, a vanificare quello che fanno le comunità che si occupano dei diritti LGBTQ+, perché il messaggio che arriva a un utente distratto che legge quella frase, o a qualcuno che ancora non crede veramente che essere gay sia qualcosa che esiste dalla notte dei tempi, è che “si possa guarire, perché può passare”.
C’è chi è bisessuale, chi può avere una fase della propria vita in cui vuole andare alla scoperta del proprio corpo e provare altre esperienze, ma questo non vuol dire essere stato gay. Bisogna fare chiarezza su tutto ciò che riguarda il tema dell’omosessualità. Ancora oggi c’è chi si suicida perché non può fare outing in serenità con la propria famiglia, c’è chi viene bullizzato, c’è chi deve fingere per tutta la sua esistenza. Qualunque forma di stigma sociale è dannosa, ogni tipo di informazione ripresa dai giornali su temi così delicati può riaprire delle ferite in quelle persone che ancora sono sul punto di pensare “lo dico o non lo dico” e dopo una frase così io sicuramente non sarei invogliato a parlare. C’è poi un altro aspetto da considerare, e qui subentrano fattori di natura culturale. Ci sono persone la cui omosessualità è frenata e relegata a un desiderio proibito, che cede tuttavia a un’autocensura che porta a stigmatizzare di fatto qualunque tipo di fantasia vera o presunta. Ma c’è anche chi è consapevole che la propria sia un’eterosessualità di facciata, molto vulnerabile e fragile, che talvolta, quando si hanno delle vere e proprie pulsioni, sfugge all’autocontrollo e lascia spazio alle naturali manifestazioni del momento. È in quel frangente che si libera quel desiderio, più volte frustrato da un contesto sociale che continua a demonizzare comportamenti e orientamenti che esulano dall’omologazione e dal conformismo. Ma la domanda che rimane sospesa nell’aria è: chi siamo noi per dire ciò che è giusto e ciò che non lo è?”