È successo anche a me. Le prime cinque parole di questo incipit già trasudano una retorica che non mi appartiene. E che, personalmente, schifo. Come schifo l'idea di rendere pubblica una storia personale, dolorosa e privatissima, proprio di 25 novembre, giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne. Gli abusi, che siano fisici e/o psicologici, non sono un trend. Non dovrebbero esistere 24 ore in cui hanno una rilevanza sociale e per il resto dell'anno, pazienza, si fa soltanto qualche post statistico in gradevole grafica Canva da piazzare su Instagram per dimostrare quanto siamo sensibili al tema. Detesto anche chi racconta i cazzi propri come a fare della sua esperienza simbolo di qualche cosa o, nei peggiori dei casi, una professione: quella della vittima. Prima di entrare nel merito dei fatti, tengo a fare una premessa per me molto importante: io non sono una vittima. Non voglio essere percepita come tale, lascio volentieri il ruolo della "povera stella" ad altri. Sono una persona che ha vissuto abbastanza a lungo per vedersi succedere diverse cose. E che di alcune, come tutti, avrebbe fatto volentieri a meno. Nessuna di queste, belle o brutte, mi definisce come essere umano. Sono una scassamaroni che, fin dall'asilo, litigava con le suore esprimendo forte disaccordo riguardo agli orari della ricreazione. Ho un certo tipo di indole, insomma. Ci sono nata. Solo che, lo ammetto oramai senza vergogna, per un periodo di tempo me ne sono dimenticata, lasciando il mio posto a una sorta di automa che nulla aveva a fare con me. Non è stata colpa del patriarcato cattivo, né di un mostro, né mia. Sto per raccontarvi qualcosa che, purtroppo, può capitare. E lo faccio sospendendo ogni tipo di giudizio anche perché i tempi della rabbia sono passati da un bel pezzo. Motivo in più che mi spinge a scriverne, per la prima volta soltanto oggi: sono serena. E credo, alla fine dei conti, che questo sia, a volerne trovare uno, il messaggio principale di ciò che sto andando a dirvi. Non importa quanto la situazione possa apparire e sia pessima, senza via d'uscita, orrenda. Prima o poi, ci sarà un "dopo". Un "dopo" in cui quanto avvenuto vi sembrerà lontanissimo. E non farà più male. Con questo augurio, anzi, con questo dato fattuale, cominciamo.
Con la pandemia avevo perso il lavoro. O meglio, tutti i progetti nell'aria dopo un importante impegno che pensavo mi avrebbe finalmente aperto diverse strade nel mio campo così sciaguratamente precario, erano stati rimandati a data da destinarsi (leggasi, a mai più) per via delle restrizioni da Covid. Mi sono quindi ritrovata, dalla sera alla mattina, sul divano a inviare cv, realizzati in pregevolissima grafica, che nessuno leggeva. Non nego che fosse un'attività piuttosto logorante. C'è chi ha preso questa "crisi" come meravigliosa opportunità per ricominciare da zero. Io, no. Guardavo il soffitto senza scopo, pensando che tanto saremmo morti tutti. Perché affannarsi, dunque, a fare qualcosa, qualsiasi cosa? Mi sbagliavo, ovvio. Ma riesco a capirmi. Fino a qui, riesco a capirmi.
Per fortuna, come rare volte mi è successo nella vita, non ero da sola. Mi sentivo molto amata, forse lo ero davvero. Non si può mica avere tutto, io avevo questo. E non era poi così poco, a ben guardare. In tempi di pace, forse, non mi sarebbe bastato. Sono iperattiva, non riesco a stare ferma, detesto la sola idea di passare le giornate a fare niente, mi spegne e deprime. In quei tempi sciagurati, invece, mi stava bene. Ero principalmente grata che ci fosse una persona in grado di amarmi, nonostante il fallimento che fossi. Superati i 30 anni, senza un lavoro, priva di scopo né prospettive concrete. Un gran bell'accollo, non c'è che dire, un cumulo di macerie in mezzo alle quali, chissà come, qualcuno era riuscito a scorgere qualcosa di apprezzabile. Che miracolo. Se posso permettermi, poi fate come vi pare, per carità, quando vi sentite così (prima o dopo capita a tutti, inutile prenderci in giro), non è assolutamente il momento di iniziare una relazione. Nemmeno con l'equivalente laico di Padre Pio. L'amore si fa tra pari, non è una roba per cui sentirsi di dover ringraziare.
Dopo diversi mesi di paradiso sentimentale, forse addirittura un anno, è iniziata l'oscurità. Non riconoscevo più la persona con cui stavo. Cioè fisicamente era uguale. Ma, all'improvviso, mi trattava in modi che non avrei mai ritenuto possibili, non certamente da lui. Si era forse stancato di me e non sapeva come dirmelo? Glielo chiedevo spesso. Rispondeva di no, rispondeva che la nostra relazione dipendeva da me, da come mi sarei comportata. Sarebbe bastato attenermi a semplici regole, "il minimo sindacale per chiunque possa dirsi civile, non è difficile. E se non ci riesci, non è che tu non possa stare con me. Significherebbe che non potresti stare con nessuno perché non sei in grado". I divieti, semplicissimi, cominciavano a fioccare ma in modo molto graduale: dovevamo passare le notti a (ri)guardare le sue serie tv preferite, anche se a me non piacevano, perché dovevo rispettare i suoi gusti. Se per caso mi capitava di dare un occhio al telefono, pure soltanto di sfuggita, faceva ripartire l'episodio da capo, biasimandomi molto per aver fallito. E che palle. Non potevo arrabbiarmi, però, qualunque cosa facesse o dicesse. Io avevo degli orari per scrivergli, lui messaggiava con la sua ex davanti a me. "C'è qualche problema?", mi domandava vedendo la mia faccia con ogni probabilità almeno almeno contrariata. "No no, figurati", rispondevo. Perché se avessi detto altro, la storia sarebbe finita. E sarebbe finita per colpa mia. Ogni tanto, quando ancora ero in me, andavo in bagno soltanto per tirare ciabatte contro al muro (erano soffici, non facevano rumore, non dovevano fare rumore). Una sera ci stavamo baciando, gli squilla il telefono, è un amico che lo invita a uscire per bere una roba: "Sei impegnato? Stai facendo qualcosa?". "No, niente. Arrivo subito". Quel "niente" ero io.
Ho passato settimane a preoccuparmi. Per lui. Visto che non era possibile fosse la stessa persona che avevo conosciuto e di cui ero innamorata, l'uomo più gentile del mondo, quello di cui si racconta soltanto nelle favole e nelle leggende, di sicuro doveva essergli capitato qualcosa. Qualcosa di grave. Non era un tipo molto estroverso, a differenza mia, si teneva tutto dentro. Volevo capire cosa gli stesse succedendo per arrivare a comportarsi così. Magari gli era salito, a distanza di tempo e tutto insieme, il contraccolpo del Covid che, sul momento, sembrava non avergli intaccato l'umore e la grinta in alcun modo. Possibile. Di certo, non volevo fare quella che se ne va quando le cose si mettono male. Troppo facile restare finché è tutto bello, se a qualcuno vuoi bene davvero, gli stai vicino pure quando non lo capisci più. Pure quando diventa spiacevole. Tanto poi, un giorno, ci ripenseremo e rideremo di quel periodaccio. Le relazioni funzionano così, alti e bassi, no? Ogni tanto, tocca sopportare. Per amore.
Per amore, intanto, le restrizioni si facevano sempre più stringenti: non potevo interromperlo mentre parlava, nominargli amici maschi, fargli sapere di avere amici maschi e, in definitiva, avere amici maschi. Non sarebbe stato rispettoso. E, nel giro di poco, il divieto si è esteso anche alle amiche. Era meglio, era meglio per me, evitare di parlarci. "Perché mi metterebbe in imbarazzo l'idea che qualcun altro sappia i cazzi nostri, capisci? Poi io non ho mai chiesto un consiglio a nessuno nella vita e guarda dove sono arrivato. Tu, invece, dove sei?". Non avevo prove da portare a mio vantaggio per dimostrare di non essere un fallimento. A logica, aveva ragione lui. Smetto, dunque, di parlare con chiunque. Per non offenderlo e, magari, diventare una persona migliore. Una persona migliore che, intanto, non aveva nemmeno più la libertà di parlare come le venisse. C'erano parole vietate. In primis, "però". "Perché quando parlo io non esiste nessun però", diceva. E allora cercavo di accontentarlo, allenandomi a levare quell'avversativa da qualunque discorso: "Oggi c'è il sole per... ma il meteo dice che pomeriggio piove". Lui apprezzava i miei sforzi, li incoraggiava, stavo andando bene.
Stavo andando così bene da essere diventata, appunto, un'automa. Col perenne terrore di sbagliare (e mandare in vacca la "relazione" per colpa mia), avevo cambiato tono di voce (sono nata con un megafono in gola), mia madre al telefono non mi riconosceva manco più perché sussurravo. Intanto, deperivo. Mangiavo, ma continuavo a deperire. Lui diceva che finché non gli avessi portato i risultati degli esami del sangue, era tutto nella mia testa "e sappiamo che di te, delle tue impressioni, non ci si può fidare". Ero d'accordo. La mia testa e le mie impressioni, fino a lì, non è che mi avessero portata molto lontano nella vita. Magari era meglio cambiare, assumere una mentalità diversa, vincente. Come la sua. Chissà. Valeva la pena di provare, tanto ormai.
Poi, la gelosia. Elemento piuttosto curioso, considerato che, come da accordi, non parlavo più con nessuno. Manco via Whatsapp. Si trattava di una gelosia retroattiva, infatti. Prima di metterci insieme, io non volevo questa persona. Lui mi corteggiava allo sfinimento, ma dal giorno zero gli dicevo che, purtroppo, saremmo potuti essere amici, al massimo, niente di più. E lo credevo davvero, mica me la stavo tirando, sono pane al pane, non faccio giochetti. Mentre il nostro comunque non demordeva, avevo incontrato un altro, belloccio e complicato, proprio il mio tipo. Gliene diedi notizia subito, per quanto non fossi tenuta, ma mi sembrava giusto così, povera anima, magari si metteva il cuore in pace. Non se lo mise. Mi chiedeva di uscire tanto quanto prima e, per non ferirlo troppo, gli rispondevo sempre di no. Ma, qualche volta, con piccole bugie: "devo passare da madre", "mi vedo con un'amica", cose così. Già gli avevo tirato 'sto palo clamoroso, fargli pure sapere che stessi andando a limonarmi un altro mi pareva cattiveria pura. Tanto lui, lo sapeva che c'era, perché infierire?
La frequentazione col belloccio complicato, ovviamente, dura due minuti. Ci mangiamo la faccia nel giro di una settimana, come era prevedibile che andasse. Perché ne sto scrivendo? Perché questa storiella, a un anno di distanza, diventa un problema, un enorme problema: "Io non posso fidarmi di te perché a quei tempi mi hai mentito, dicendomi che andavi altrove. Questo significa che puoi mentire, ne sei in grado. Quindi, capisci, ogni cosa che dici, a meno che tu non riesca a dimostrarmela coi fatti, non ha credibilità". Poi voleva leggere i messaggi dell'epoca - in cui, ricordiamolo, non stavamo insieme - per sapere cosa e quanto avessimo fatto io e il belloccio complicato, come. Avevo cancellato le chat appena smesso di vedere questa persona, lo faccio sempre quando voglio rimuovere fastidi che ho avuto il dispiacere di incontrare. La "scusa" non reggeva, gli stavo certamente nascondendo qualcosa. Era una follia, scoppiata tra l'altro fuori tempo massimo. Ma per questa follia, dai e dai, una sera sbotto e gli dico di piantarla, forse glielo urlo proprio e prendo la porta per uscire (vivaiddio!). Andando verso l'ingresso, inciampo in un tiragraffi, di quelli che si montano a pezzi, facendolo cadere. Lui lo considera un gesto di stizza, quindi mi corre dietro, mi spinge a terra e comincia a prendermi a calci. Mentre sono lì, non so nemmeno cosa stia succedendo, è come se non fossi lì. Nel momento in cui realizzo, grido la prima cosa che mi viene in mente: "Carabinieri!". Lui si ferma. Mi chiede gentilmente di rientrare per bere una cosa insieme, fare due chiacchiere, come se niente fosse appena successo. Io sono su Marte, ma resto fuori. Vedo le sue piante, ci teneva moltissimo. E comincio, piano piano, a staccarne le foglie, una per una, con calma, senza dire una parola. Non era un dispetto, non so cosa fosse. So che oramai da mesi gli ripetevo spesso che se non avesse dato acqua alle sue piante, loro sarebbero morte. E che la stessa cosa stava succedendo con me. Non mi dava acqua da troppo tempo, io me ne morivo.
Il giorno dopo, mi risveglio a casa mia. Piena di lividi. Passa a trovarmi, a sorpresa, un amico (sì, qualcuno ne avevo ancora, alla fine, faceva bene a non fidarsi, sono un'indisciplinata e tale morirò). È una cosa, questa, che non dimenticherò mai. Apre la porta, mi vede ridotta così, mi guarda con un misto di rabbia e pietà. Non dice niente, chiude la porta, se ne va. E lo capisco, cazzo, se lo capisco. Me lo diceva da mesi di smettere di vedere quella persona, anche se parlavamo poco. Lo aveva capito che, prima o dopo, sarebbe andata a finire così. Lo avrebbe capito anche un passante distratto. Anzi, era proprio successo: un pomeriggio, stavo prendendo un caffè nel solito bar vicino casa con quello che pensavo di poter ancora chiamare il mio compagno. Nel momento in cui lui si alza per una telefonata o per andare in bagno, non so, mi si avvicina il cameriere per chiedermi se andasse tutto bene, se avessi bisogno di aiuto. Io ci rido sopra. Non stavo piangendo, non stavamo litigando, "oggi è solo un po' nervoso", dico. Ma il tono che usava con me, evidentemente, aveva destato preoccupazione perfino in un perfetto sconosciuto. "Sarà stato uno che ti si voleva scopare - mi risponde lui quando glielo riporto come fatto buffo - e tu, ovviamente, gli hai anche risposto, gli hai dato corda. Vedi perché non mi posso fidare di te?". Cazzo, non ne azzecco una. Sono costernata. Davvero, lo sono.
Ritornando a quel mattino, il mattino dopo quella notte, dopo la visita dell'amico che, giustamente, mi vede e se ne va, ricevo una chiamata da lui. È sotto casa mia, mi vuole parlare. Ovviamente, scendo. Mi porta in un locale rumorosissimo, musica a palla, difficile conversare. Come anche che qualcuno senta ciò che ci stiamo dicendo. Mi chiede che cosa "penso" che sia successo in nottata. "Mi hai menato", rispondo dritta. Sorride, quasi con tenerezza. "Avevamo bevuto, ricordi? Sei sicura che sia andata come dici?". "Sì, sono un cazzo di dalmata", oso replicare. "Sei andata al pronto soccorso? Hai un referto? Non hai niente in mano per dimostrare quello che dici e questa è una cosa a cui deve pensare. Sai che ho tanti amici, ci metto niente a trovarne uno che dica di aver passato la notte a casa mia, molte persone mi devono parecchio, non sarebbe un problema". "Ok, ma tu hai fatto quello che sto dicendo o no?", "Non è questo il punto". Invece, lo era. Ma me ne sto zitta, schifata dal fatto che fosse lì a tentare di persuadermi che non fosse successo niente, perfino di fronte all'evidenza, poteva comunque essere stata una mia "impressione". Lì, finalmente, mi mangio la foglia. Non sussistono più appigli per poter pensare che questa persona mi voglia bene. Non davanti a una cosa del genere. Specie, a mio avviso, per la toppa che sta cercando di mettere al buco. Che schifo. Non dico niente, ma "che schifo" lo penso forte. Per una buona volta. Alleluja delle lampadine.
Da qui partono mesi complicati. Non voglio stare con lui, ma una stupida, inifinitesimale parte di me è ancora innamorata della persona che aveva conosciuto in quei primi mesi di paradiso sentimentale. Provo a uscire con persone nuove, un gruppo di gente del quartiere, passo il tempo parlando a martello di lui, senza farne mai il nome perché ho paura. Finché una notte mi scrive di passare a casa sua, io mi sento benedetta dagli dei per questa inaspettata opportunità. Sono in giro con questi nuovi conoscenti, mi dicono di restare con loro, per carità. Io rispondo, a macchinetta, "Non posso fare altrimenti", mentre ho già le chiavi della Smart in mano. A ripensarci, credo che i tossicodipendenti facciano così. Sanno che non gli conviene, che ferireranno terzi, che è sbagliato. Ma, appena possono, corrono a sbagliare di nuovo. Un automatismo totalmente ottuso, ma non si può "fare altrimenti".
Vado, passiamo la notte insieme. Il mattino dopo, per prima cosa mi fa sapere quanto sia stato "orrendo" trovarmi ancora in casa sua. Gli chiedo scusa, stava piovendo forte, non avevo l'ombrello e dovevo iniziare a lavorare (sì, avevo in qualche modo ripreso). Mi ero permessa di farlo lì, ma avrei levato le tende appena il tempo fosse migliorato. O anche subito, se preferiva. Il punto, però, non era questo. Il punto è che, attenzione, avevo fallito di nuovo. Il suo messaggio notturno era un "test": voleva vedere come gli avrei risposto. "Sai che non voglio stare con te, leggendo quel messaggio avresti dovuto capire che come minimo fossi ubriaco (non lo era, ndr). Invece no, per tuo egoismo personale, sei venuta qui lo stesso, approfittandoti di me". Insomma, ero anche stronza. Va bene. Gli faccio notare che, sia come sia, tra i due quella a esserci rimasta sotto ero io. E che, di conseguenza, sarebbe stato complicato per me rifiutare un suo invito. Forse, onde evitare fraintendimenti, sarebbe stato meglio non scriverne proprio, dopotutto. "Dici questo perché, al solito, non sei in grado di prenderti le tue responsabilità, non sai controllarti né ragionare da adulta. E staresti anche cercando lavoro, pensa. Chi mai ti assumerebbe, quando non sei capace neanche di gestire un minimo la tua vita?". Ok. Chiude con un monologo su quanto sia stupido, da parte mia, ostinarmi all'età che ho, a voler riprendere a scrivere di mestiere perché "ti interessano cose talmente stupide, chi la guarda più la tv a parte te? E poi a chi pensi che potrà mai fregare un cazzo della tua opinione?". Concordo. Ma prendo la porta, salutando educatamente anche il gatto. Sia mai essere scortesi.
Alla fine di questa storia, ero un fascio di nervi. Un fascio di nervi demolito. Continuavo a ripetere di avere "la testa rotta", perché avevo "la testa rotta". Non solo quella, in effetti. Per diversi mesi, non sono riuscita a mangiare, non mandavo giù nemmeno l'acqua, non senza rimettere. Mi hanno rimbalzata due volte al vaccino per il Covid, i medici non si sono presi la responsabilità, viste le mie condizioni. L'avrebbero fatto pure a Hitler risorto, ma non a me, ero già troppo debilitata. Intanto, riprendo timidamente a scrivere perché un qualche lavoro lo dovevo pur fare e questo, purtroppo o per fortuna, era l'unico che mi riuscisse. Ma mica bastava. Mi reinvento cameriera, imparo a dissimulare svenimenti e capogiri come avevo già imparato a tirare indietro le lacrime, quelle stesse lacrime che, nel corso dei mesi precedenti, avevano distrutto pure il mio telefono: se qualcuno mi chiamava, dovevo mettere il vivavoce, altrimenti non sentivo niente. Tra l'altro, è una cosa che faccio ancora oggi, un'abitudine. Avevo attacchi di panico per qualsiasi cosa, pure se non riuscivo a chiudere bene una porta "perché non so fare niente, vedi che non so fare niente?!". Pensavo io, con la voce di lui nella testa a commentare qualunque cosa facessi. Non ero riuscita a seguire delle regole semplicissime per tenere in piedi quella relazione, avevo fatto prima esaurire e poi scappare una persona che aveva ben dimostrato di amarmi così tanto. Non ero solo una nullità, ero proprio un mostro. Un mostro che non doveva nascere e che ora si ritrovava a vivere in un mondo che, necessariamente, lo rifiutava. Sì, in pratica, tra pensieri e conseguenze psicosomatiche - il fatto di non riuscire a mangiare, insomma - ero quasi morta. Quasi.
Un'amica mi convince ad andare da una psichiatra. La visita dura esattamente cinque minuti. Le dico alla veloce quello che mi è successo, mi risponde che dovrei rivolgermi a un centro anti-violenza, non a lei. "Ascolti, ok tutto, so che non sto bene, ma mica sono stata stuprata in un vicolo la notte, grazie a Dio. Sono solo stata con uno stronzo, insomma, per quanto sia dura, penso di potermela cavare senza andare a rubare il posto a chi è davvero in pericolo. Quanto le devo per il disturbo? io me ne vado". Pago e prendo la porta. Appena lo faccio, realizzo che quella sia stata la prima volta dopo tanto, tantissimo tempo, in cui mi sono arrabbiata. In cui ho detto no, forte e chiaro, senza trattenermi. Come facevo all'asilo con le suore, come avevo sempre fatto. In quel momento penso che, forse, da qualche parte, ci sono ancora, esisto. E allora decido di non andare in terapia, di curarmi da me, perché non sono morta, sono ancora lì, mi devo solo ritrovare. Lavoro abbastanza da riuscire a cambiare casa nel giro di qualche mese, appena mi trasferisco, riprendo a mangiare (e digerire) come Mefisto comanda. Scrivo, scrivo tantissimo, sempre di più, perlopiù robaccia sotto pseudonimo, traduzioni, bigini di libri di economia (?!). Scelgo volontariamente di azzerare ogni tipo di vita sociale perché la priorità ora è ricostruirmi. E poi, quando stai di merda, vuoi o non vuoi, attiri soltanto merda. È una dura legge non scritta, ma comunque una legge.
Oggi, 25 novembre 2024, ho scritto questa storia perché voglio dire a quante più persone possibile, fossero anche due, che c'è un "dopo". Che ora, davvero, questi ricordi, un tempo il mio tutto, non mi fanno né bene né male. Sono totalmente impermeabile alla loro esistenza, mi perdono tutte le cazzate, non me ne vergogno nemmeno più (è stato un percorso lungo). Mi sono innamorata di nuovo, una volta sola, ed è stata una gran bella fregatura. La notizia è, però, che è successo. Non nutro alcune sfiducia nel genere umano maschile, all'infuori di qualche battuta che mi può capitare di fare, se la trovo divertente. Non odio nessuno, non penso che "all men", ma nemmeno che "not all men", preferisco parlare di "persone". Perché prima di essere maschi o femmine, siamo innanzitutto "persone", con i loro casini e le loro fragilità. Non diagnostico narcisismi patologici neanche ai concorrenti del Grande Fratello perché non ho una laurea in Psicologia. Al massimo, ho abbastanza esperienza per poter dire "Madò, che stronzo questo!".
Non sono ciò che mi è successo quella volta, non lo sei nemmeno tu che sei arrivata o arrivato a leggere fin qui (e ti ringrazio per questo). Sei stata orribile, sei diventata una barzelletta, pensi che tutti si ricorderanno di te come quella che frigna, quella persa, quella che ne ha sempre una, quella che non ne uscirà mai e oddio che accollo che è. Lo sono stata anche io, chi più chi meno, lo siamo stati tutti quanti. Il tempo passa, ora magari "sei" quella roba lì, domani chi lo sa. Le notizie sul giornale di oggi sono la carta per il culo del giorno seguente, lo stesso vale per gli errori, per tutte quelle volte in cui avrei, avresti, avremmo potuto fare di meglio. Chiudo con una frase che, per lavoro, mi è toccato sentire da un No-Vax. Un No-Vax convinto che, dopo il Covid, ci sarebbe stata la fine del mondo: "Il problema non è tanto l'Apocalisse, ma come la vivi".