È un’intervista video divisa in brevi sezioni, chiarissima, sottotitolata in Italia, breve, un condensato di buon giornalismo. L’ha fatta Pubble allo storico israeliano e antisionista Ilan Pappè, uno dei principali critici di Israele, ormai da anni, considerato uno dei principali storici del conflitto araboisraeliano. A prescindere da come la si pensi, è un esercizio di libertà e di chiarezza, visto che nessuno, né la giornalista né Pappè usano retorica o trucchi per evitare di attirare critiche. A partire dal “segreto di Pulcinella” che i critici di Israele sostengono fin dal 7 ottobre 2023. Spiega Pappè: “Per come la vedo io, fondamentalmente la situazione in Israele o l’attitudine dominante nella società israeliana non è cambiata molto dopo il 7 ottobre. Il cambiamento è stato nell’intensità, nella grandezza, nella libertà di dire cose che forse i politici israeliani avevano timore a dire apertamente, ma le pensavano lo stesso prima”. Per Pappè, la società israeliana è stata formata, in altre parole, sul mito della pulizia etnica palestinese, sulla Nakba. “Io ho paragonato il 7 ottobre,” continua lo storico, “a un terremoto che ha scosso un edificio già traballante, il problema è sempre lì nelle fondamenta, ma gli attacchi lo hanno peggiorato”.

Ciò che è davvero cambiato, spiega Pappè, è semmai l’attenzione internazionale, soprattutto della società civile, rispetto alla tragedia di Gaza: “La Palestina non aveva copertura mediatica prima del 7 ottobre, quindi il grande cambiamento è che è diventato centrale. Il linguaggio è cambiato, il linguaggio del genocidio non era usato dai politici israeliani prima del 7 ottobre. Le intenzioni ci sono sempre state ma hanno pensato che dopo gli attacchi di Hamas avrebbero potuto parlarne liberamente”. Per capire il conflitto, secondo lo storico, bisogna anche capire come è distribuito, attualmente, il potere in Israele: “Il governo che è stato eletto nel 2022 ha due elementi: uno è Netanyahu e la sua cerchia e l’altro è composto dai sionisti messianici fanatici, politici come Smotrich e Ben Gvir e anche altri. Sono molto diversi. Netanyahu è interessato a Netanyahu, lui non ha un’ideologia. Lui va con chi è in grado di garantirgli la sua posizione al potere”. Il successo del primo ministro israeliano, in altre parole, è dovuto alla sua dote, ormai corroborata negli anni, di adattarsi al sentire popolare: “Lui ha letto bene la mappa nel 2022 che buona parte dell’elettorato ebraico non è interessato alla democrazia ma è molto più interessato ad avere in un paese, in uno Stato che sia etnico, razzista e anche un po’ teocratico”. Non si salva nessuno: “Sì, esiste una larga minoranza di persone liberali che non vogliono vivere in una teocrazia, anche loro sono razzisti, ma sanno come gestire la cosa, fanno attenzione e sanno che il razzismo non è cosa ben vista; ma sono una minoranza. Cos’è questa è l’alleanza tra un politico e il suo gruppo interno, che è rimasto al potere per quindici anni, e punta a restare al potere più che può, e che crede che l’unica alleanza per assicurarsi il futuro sia quella con persone con una forte ideologia, fanatici, messianici”.
Pappè risponde anche a un’obiezione che spesso è stata fatta dai sostenitori di Israele. Se è vero che la condotta di Netanyahu è da condannare, è altrettanto vero che Bibi se ne andrà presto. A quel punto, mentre lui verrà processato, lsraele avrà modo di rinascere moralmente. Ma sarà davvero così? Non per Pappè: “Questo è qualcosa di importante da capire. Se Netanyahu dovesse perdere le elezioni, cosa possibile, del 2026, la politica israeliana non cambierà. Gli amici messianici di Netanyahu non vogliono solo prendere il controllo della Palestina storica, West Bank e Striscia di Gaza, e annetterle a Israele. È chiaro che stanno pensando al sud del Libano, al sud della Siria, dicendo che sono parte dell’antico Regno di Israele, l’hanno letto nell’Antico Testamento. Quello che conta, la cosa più importante che emerge da questa nostra conversazione, è che Israele non è mai stato una democrazia. È stato una democrazia forse per gli ebrei, e ora rischia di non esserlo più neanche per loro, ma non è mai stata una democrazia per i cittadini arabi e dal 1967 non è di certo una democrazia per la gente della West Bank e di Gaza”.
Uno step fondamentale, a dimostrazione di ciò che Pappè sostiene, è poi l’interpretazione che si deve dare, secondo lo studioso, del sionismo: “un progetto, la soluzione agli occhi dei governi europei al problema dell’antisemitismo. L’Europa,” spiega Pappè, “soprattutto quella centrale e dell’est, non accettava gli ebrei come europei. E quindi cercava una soluzione. L’idea che gli ebrei potessero abbandonare l’Europa e andare in Palestina come parte di un piano divino diventò un piano molto attraente e questa è stata la prima fascinazione europea per il sionismo”. A cui si aggiunge, poi, lo spettro, anch’esso europeo, del comunismo: “[I socialisti, ndr] sognavano di togliere i palestinesi dalla Palestina per costruire una società socialista per gli ebrei. Quindi costruisci i kibbutz e allo stesso tempo cacci via i palestinesi lì dove costruisci i kibbutz. In poche parole, l’Europa ha promesso agli ebrei europei che non era dell’Europa”.

Ma da dove arriva l’indifferenza palese che l’Occidente ha riservato alla “causa palestinese” e al massacro in corso? Per Pappè bisogna distinguere tra due grandi poteri in Europa, quello politico e quello dei media: “L’élite politica guarda a Israele come parte dell’Occidente europeo, quindi prendere azioni serie contro Israele è prendere azioni serie contro uno di noi. È diverso quando si tratta della Serbia o della Russia”. A questo si aggiunge la cosiddetta ondata nera europea: “Israele è un grande modello nell’applicare il razzismo. Antisemitismi e sionisti, tutti e due non vogliono vedere gli ebrei in Europa e tutti e due sono islamofobici e arabofobici”. Non solo un problema di destra, ma anche di caratura: “Siamo in un’epoca dove i politici in generale non sono proprio di alto livello. Questa generazione di politici occidentali è piuttosto unica, è egocentrica, guarda alla politica come mezzo per fare carriera, non come una vocazione, e non ha nessuna spina dorsale morale. Non credo che non capiscano davvero che non è in corso un genocidio, ma sono più preoccupati della carriera che del genocidio”. Il secondo aspetto, abbiamo detto, è quello dell’informazione: “I media penso che siano vittime di un lunghissimo processo delle lobby pro-Israele. Ci dimentichiamo che queste lobby sono centenarie. Si assicurano che i giornalisti siano fedeli alla narrativa israeliana. Quando leggo i giornali o sento i media qui in Italia, sono senza vergogna, una fabbrica di negazionismo. Non vedo roba del genere nemmeno nei giornali israeliani. La gente perde fiducia e si rivolge ai media alternativi”.