La sensazione è quella che provi quando vedi un horror al cinema: non è tanto la scena splatter che ti colpisce, ma l’attesa, la suspence, la percezione che qualcosa sta per accadere perché i presupposti ci sono e gli indizi anche, tutti intorno a te. Come quando senti quelle due note celebri e dopo, ma solo dopo, vedi Lo Squalo di Spielberg attaccare. Sì, quel piccolo capolavoro di John Williams che in un crescendo drammatico poi culmina con l’attacco… Ecco, il mio viaggio umanitario in Polonia per portare aiuti e materiale medico è stata un continuo viaggio “sospeso” con questa colonna sonora impiantata nel retrocranio. E anche se non ho visto la vera devastazione (forse da cittadino “normale” non ero neanche pronto o preparato a vedere e sopportare scene di questa durezza), sono stati i dettagli a farmi capire che qualcosa non andava. Perché vivere una situazione di emergenza umanitaria di questa portata in prima persona non è come vedere il telegiornale, dove le immagini di un bombardamento sono lontane e distaccate, molto simili a qualsiasi film di guerra che puoi vedere facendo zapping. Abbiamo percorso oltre 3300 km a bordo di un Suzuki Across con un convoglio di sette furgoni organizzato dalla ONG Bambini nel Deserto ONLUS, con loro abbiamo attraversato mezza Europa: guidando per l’Italia, l’Austria e la Repubblica Ceca, tutto è stato fin troppo noioso.
Arrivati in Polonia, però, la musica è cambiata. Abbiamo visto colonne di militari trasportare carri armati. Carri armati! Pronti per l’uso, non come durante le nostre parate del 4 novembre. E dal vivo i carri armati fanno davvero impressione! E poi una moltitudine di furgoni e camion da Francia, Germania, Italia, con a bordo generi di prima necessità per le popolazioni colpite da questo tremendo conflitto. A guidarli gente comune come me, con lo stesso sguardo di chi non sa cosa aspettarsi. Ancora, le batterie di missili Patriot sistemati a protezione dell’aeroporto di Rzeszów da dove poco prima del nostro passaggio era partito l’Air Force One di Joe Biden. Decine di postazioni pronte al fuoco per proteggere un obiettivo sensibile a solo 100 km dall’Ucraina, 170 da Leopoli. Tutti piccoli tasselli che ci hanno fatto vivere per qualche giorno in uno stato di continua tensione. Una sensazione che non se n’è andata per tanto tempo e che ancora adesso mi fa riflettere su quello che ho vissuto, perché se è vero che noi abbiamo lasciato nel magazzino oltre centomila euro di materiale medico e poi siamo tornati in Italia, gli altri (i Polacchi e, soprattutto, gli ucraini) quelli sono rimasti lì. Con la colonna sonora de Lo Squalo sempre di sottofondo nella loro precaria quotidianità.
Poco prima di partire abbiamo incrociato un pullman di dottoresse ucraine che erano a Rzeszów per un corso di aggiornamento. Solo donne, perché i loro compagni, padri e figli erano impegnati al fronte. Leggendoci il disagio negli occhi, una ragazza ucraina si avvicina e ci dice: “Il vostro lavoro è stato per noi fondamentale e molto importante; grazie a ogni singolo gesto di ogni singola persona comune si possono fare grandi cose. E voi fate parte di questo meccanismo. Magari pensate di avere semplicemente svolto il lavoro di un qualsiasi corriere, ma non è così. Voi avete visto e vissuto in prima persona emozioni e situazioni che vi porterete dentro per il resto della vostra vita. E qui sta la forza di quello che avete fatto. Adesso avete il compito di trasmettere questa vostra esperienza con i vostri amici, cari, conoscenti attraverso tutti i canali che avete a disposizione, perché solo condividendo tutti quanti questo momento e queste emozioni possiamo dare un messaggio di pace internazionale fondamentale per contrastare questo conflitto”. Grazie Tatjana, sconosciuta ragazza dagli occhi azzurri, il tuo coraggio è stato per noi una importante lezione di vita e di umiltà che porterò sempre con me.