“Io ho fatto tante trasmissioni come inviato di guerra, coprendo l’intero continente africano quando ero in Rai. E poi quando ero al Tg4 ho seguito da giornalista tutte le guerre, da Kabul a Nassirya. Adesso sto seguendo il mio amico Giletti che mi ha mandato un messaggio per ricordarmi che sarebbe stato in onda dall’Ucraina. L’ho seguito, bravissimo”: sin dalle prime parole della nostra intervista si capisce subito da che parte stia Emilio Fede nella diatriba sulla conduzione di Non è l’Arena dal fronte. Non è facile sentire Fede, o meglio, prima c'è da risolvere la parte più difficile, quella di concordare il numero sul quale sentirsi: il direttore ci dà gentilmente il suo numero di casa, ma poi dice che dal fisso non si sente bene e soprattutto ci dice: "Essendo questo telefono intercettato dalla polizia, meglio che ci sentiamo sull'altro no?". Una signora che è lì con lui ci dà il numero di cellulare, ma l'abbiamo già e suona sempre occupato. Alla fine risolviamo. Come? È un segreto: "Se avete capito, un premio. Io non ci ho capito un cazzo", come confessato simpaticamente dal giornalista di lunghissimo corso durante le operazioni di contatto.
“Giletti – ci dice Fede, venendo al merito – è uno molto in gamba, molto perbene. Il problema del cronista di guerra è un problema eterno, perché c’è chi la guerra la guarda dal tablet, stando comodamente in albergo, e c’è invece chi rischia letteralmente la pelle. Io l’ho rischiata a Nassirya, l’ho rischiata a Kabul, l’ho rischiata in Africa. Altri colleghi bravi, anche più bravi di me, la rischiano in questo momento in questa guerra che ci assale da tutte le parti e non si riesce più a capire da quale parte dobbiamo difenderci. Vediamo delle immagini che sono orripilanti, di morte, e di morti che poi sono buttati nelle fosse comuni. Sono delle oscenità dal punto di vista morale. La morte è morte comunque, non importa la bandiera: va rispettata. Giletti fa benissimo a portare alla ribalta questa situazione che fa riflettere le persone, le fa inorridire e fa sì che sempre più persone preghino e spingano perché l’orrore possa finire, con una pace vera, non i lunghi tavoli in cui ci sono tutti belli eleganti e tutti gli uomini sull’attenti, ma dove ci sono le persone che sanno cosa rischiano tutte le volte che escono di casa”.
Direttore, cosa l’ha colpita di più di quello che sta accadendo?
Io sono rimasto colpito e rimarrò colpito per tutto il resto della vita che mi rimane da giornalista aver visto in una fossa comune una donna che teneva in braccio la figlioletta. Quando la guerra ti propone degli orrori così, non è più una guerra, ma è una strage.
Dunque crede che stia facendo bene Giletti ad andare lì sul posto?
È quello che ho fatto io e che hanno fatto tanti altri, rischiando e riuscendo a portare a casa la pelle. Che non è il vanto «siamo degli eroi», ma è l’obiettivo di far capire al mondo civile che la guerra non deve esistere più. Deve esserci il contatto per salvare tante vite umane e riconoscere ai popoli il diritto di esistere.
Come si potrebbe fermare questo conflitto? Si è fatto un’idea?
Io credo che prima o poi ci si arriverà. Ho sentito anche l’intervento del presidente Berlusconi, che è intervenuto nel coro di coloro che vogliono la pace e che vogliono fermare cannoni e carri armati e scongiurare l’incubo della guerra chimica e nucleare. Siamo in un momento in cui bisogna chinare la testa, pregare per chi crede e poi intervenire ai livelli più alti portando una parola di pace. Mettersi sull’attenti non è servito se non ad alimentare un macabro spettacolo in cui i morti sono aumentati, i feriti e le persone scomparse pure. Il diritto a una patria deve essere al centro delle discussioni, bisogna far sì che si passi alla realtà: fermare le morti, fermare una tragedia che colpisce gli esseri umani che altro non chiedevano che una vita più sicura e sotto a una bandiera.
Quindi trovare un compromesso tra le parti?
Sì, ma non vuol dire scendere a compromessi. Trovare un compromesso significa valutare i diritti e le richieste. In questo senso l’invito a una trattativa e alla pace di Berlusconi, che conosce molto bene quelle zone, è rispettabilissimo. Altrimenti continueremo ad avere le tavolate e le bandiere ma girandoci dall’altra parte vedremo la gente morta, neanche sepolta. Va fermato il conflitto e si deve passare a una pace duratura.
Visto il suo rapporto con Putin, secondo lei Berlusconi avrebbe potuto fare qualcosa prima? E può fare qualcosa adesso?
Conosce bene Putin e l’ha conosciuto come altri capi di Stato per il dovere e il rispetto che si ha quando si è al governo. Berlusconi è un uomo che si basa da pace, giustizia e fedeltà. Io penso che una carta giusta l’abbia giocata. Non il solo, per carità. A me ha commosso anche il pontefice, solo, stanco, ormai avanti nell’età, che ha chiesto pace, pace, pace. Accodiamoci.
È stato giusto mandare armi all’Ucraina?
Questo non lo so. Se lo sapessi sarei un mago. Invece sono un giornalista e mi accingo a fare un docufilm sui miei anni da inviato di guerra. Perché credo di avere un’esperienza che nessuno ha tra i miei pur bravissimi colleghi. In giro per il mondo sono stato ferito, catturato, mi hanno sparato, tutto quanto. Sapendo che cos’è la morte, avendola vista da vicino ed essendomi salvato per caso, pensando alle persone che muoiono non faccio più differenze di colore, di pelle o di politica sono convinto che occorra intervenire con tutta la forza della ragione possibile. Dicendo «fermate le armi, non sparate, non lanciate verso il cielo fuoco terribile che non capisce da dove arriva e dove può arrivare». Tutto il mondo civile deve fare il possibile perché la guerra si fermi.
Come sarà questo docufilm?
Ci stanno lavorando. Non per presunzione, ma sono il solo giornalista vivente che ha veramente vissuto tutte le più strane e drammatiche situazioni nel mondo. Parlo dell’Africa, del continente africano allargato, della lotta al razzismo: ho vissuto tutto, sono saltato su una mina in Angola, mi sono salvato dall’esplosione di un aereo a Nairobi, correvo in Sud Africa per dare una mano contro l’apartheid, mi hanno arrestato, sono finito ferito. Le ho viste tutte e da tutto questo sono uscito ancora adesso in grado di raccontare. E lo si vuol fare come docufilm. Ma utilizzo anche Instagram come prezioso mezzo di comunicazione.