Spettacolarizzazione sì, senz’altro: le barricate, i colpi in sottofondo, le urla all’operatore che si allontana di qualche metro. Eppure colui che per settimane ha ospitato in collegamento dal terreno di guerra inviati e giornalisti mettendoli a confronto in studio (con il mantra “facile parlare da un salotto…”) con analisti, polemisti e scemi di turno, in Ucraina poi è andato davvero ed è andato a fare il suo mestiere: osservare con i propri occhi ciò di cui racconta da quasi un mese. E vedere Massimo Giletti, emblema della spettacolarizzazione televisiva e del più balordo opinionismo da talk show in cui analisi e contegno vengono cinicamente sacrificati sull’altare dell’audience e del trend topic, ha dato fastidio a più di qualcuno.
Giletti, del resto, è un animale da arena televisiva, e la sua trasmissione - nomen omen - è a sua immagine e somiglianza. Divide, solletica lo spettatore parlandogli alla pancia, si crogiola nello schema dialettico dell’uno contro uno (o uno contro tanti) attraverso l’invito a personaggi anche improponibili ai quali viene dato il marchio dell’eterodossia quando, invece, portano contributi totalmente privi di spessore ma perfetti per la logica second screen dei twittatori compulsivi. Di questo Giletti è compiacente e compiaciuto, ma è pure colpevole del poderoso aumento dell’entropia di stupidaggini sul conflitto veicolate appunto dal suo salotto. Facile criticarlo per i detrattori, anche giusto, nelle logiche televisive, per quanto perverse (che poi la perversione è negli spettatori, perché Non è l’Arena dà al suo pubblico ciò che vuole: i dati auditel non mentono), ha ragione lui.
Sulla base di prodromi del genere, era preventivabile che anche la sua presenza a Odessa sarebbe stata pretestuosamente criticata. Lo ha fatto Selvaggia Lucarelli (secondo la quale Giletti ha trasformato la guerra “nel set di un film di serie B”), suggerendo che si trattasse di una registrazione quella spacciata per diretta dell’intervento a Non è l’Arena e accusandolo di personalismo per avere messo “il suo faccione davanti a ciò che accade”. In sé sarebbe anche tutto giusto, certo severo ma anche indiscutibilmente vero, però appunto: criticare Giletti per essere andato in Ucraina a fare il giornalista, sebbene a modo suo, è funzionale alla stessa logica da second screen e della personalizzazione della quale sia lui che Lucarelli nutrono i rispettivi personaggi rendendo più ricchi i rispettivi contratti. Allo stesso modo, per contrasto, Giletti ha ricevuto anche la difesa di chi, come Paolo Mieli, si è dimostrato in merito più laico, senza andare a cercare la polemica ma applaudendo il suo essere in loco.
Il punto sta in una forma verbale greca, nota a chi ha studiato al classico. “Oida” (oἶδα), coniugazione al tempo perfetto del verbo “orao” (ὁράω) che letteralmente significa vedere e dunque “ho visto”, ma che per i greci significava anche “io so”: so perché ho visto, la conoscenza come conseguenza dell’esperienza visiva. Ecco, tralasciando la pedanteria della spiegazione, è quanto di più giornalistico possa esserci: sarà pure Giletti, ma quando sarà tornato da Odessa conoscerà qualcosa in più di tutti coloro che ciò che accade non lo hanno visto. Ma ne parlano.