Sebastiano Leddi è fondatore di Perimetro: un magazine online, un’associazione culturale, una rivista a tiratura limitata (200 copie), una community e molto altro ancora. Lo incontriamo per parlare di fotografia e delle dinamiche artistiche e commerciali del settore, ma in primis va segnalata l’iniziativa United Photographers 4Ukraine, attraverso la quale si possono acquistare una o più immagini donate da 100 fotografi (Oliviero Toscani, Franco Pagetti, Massimo Sciacca, Robert Whitman, Tina Tyrell, Toni Thorimbert, solo per citarne alcuni): la foto stampata fine art da Fontegrafica viene inviata direttamente a casa, l’iniziativa (che finora ha raccolto giù 200 mila euro) si prolungherà fino al 14 aprile e il ricavato verrà devoluto all’ospedale pediatrico di Kiev, alla Croce Rossa Internazionale e a Medici senza Frontiere.
La tua formazione, Sebastiano, è d’agenzia con Management + Artists, poi con Multi dove ti occupavi principalmente di produzioni e eventi. Poi arriva il momento di Perimetro, della fotografia come mezzo per raccontare, del creare una community, dell’inclusività…
Diciamo che il motivo per cui sono uscito un po’ da quel contesto (anche se comunque continuo a occuparmi di produzione) è stato perché a un certo punto l'agenzia (M+A) decise di spostare l'ufficio che aveva da Milano a Londra. All'epoca io e Gloria Maria Cappelletti seguivamo l'ufficio di Milano, io ho un figlio e lei ha una figlia, non potevamo andare a Londra. A quel punto ho avuto un momento dove ho dovuto capire dove andare a ricollocarmi, anche perché io seguivo anche la parte di eventi, quindi stavo valutando la possibilità di creare un'agenzia di pubbliche relazioni. Nel frattempo collaboravo con la Multi, e ho lavorato per qualche mese a Shanghai e mentre ero lì mi sono detto: ma io voglio stare a Milano. In Multi scopro il lavoro del fotografo James Mollison, la sua è una fotografia documentaria applicata al commerciale vidi un suo lavoro sull’identità e lì ci fu la folgorazione; è come se si fosse accesa una lampadina, capi che la fotografia poteva essere un veicolo di comunicazione su molti livelli. Da lì in poi il mio modo di ragionare sulla fotografia cambiò e iniziai a capirne veramente i meccanismi. Quello che volevo fare era parlare di Milano, la mia città. In quegli anni (2018) poi, era vista come una città senza un’anima, una città certamente molto raccontata e celebrata, ma dal mio punto di vista quasi venduta. Perimetro nasce quindi dal voler vivere in modo attivo Milano e dal voler raccontare un’altra Milano. All’inizio incontro moltissimi fotografi, in un giorno ne vedevo anche sette o otto e così bevevo moltissimi caffè (sorride). Incontravo fotografi di tutti i tipi: reportagisti sociali, di architettura, eccetera. Capii che era necessario connettere tutti questi fotografi perché normalmente ognuno resta nella sua nicchia. Perché io non voglio parlare di fotografia ma voglio parlare di Milano attraverso la fotografia. Così nasce Perimetro.
Ci sono moltissimi fotografi che collaborano con Perimetro, forse anche troppi... Come avviene la selezione, lo scouting?
Certo, più si è selettivi più c’è qualità. Sono consapevole che più un progetto è inclusivo più da una parte si sacrifica il discorso qualitativo. Se vuoi avere una chicca, fai poche cose di uno standard molto alto e fai entrare nomi importanti. Però io non mai pensato di fare questo tipo di discorso, innanzitutto a me piace il discorso dell’inclusione perché voglio che Perimetro sia una piattaforma accessibile. Una cosa di cui sono orgoglioso e che noi rispondiamo sempre a tutte le mail. Incontriamo sempre, quando riusciamo, i fotografi che vogliono conoscerci. Quello che dico ai fotografi è che a me non interessa chi sei tu, a me interessa la storia che ci proponi. Di fatto quindi noi non facciamo scouting perché non cerchiamo, selezioniamo e diamo una linea editoriale partendo dal parametro principale: il racconto di un fotografo che si muove nel suo territorio. Abbiamo anche pubblicato studenti o fotografi che per la prima volta mostravano il loro lavoro.
Molti di questi fotografi non hanno ancora un percorso strutturato, li aiutate in qualche modo a trovare la loro strada?
Non possiamo seguire i fotografi sotto questo aspetto, considera che mediamente pubblichiamo una ventina di contenuti al mese, il che significa duecento fotografi all’anno. Molti fotografi però sono entrati nel circuito e quindi sono nate molte collaborazioni. E con loro poi siamo diventati amici, oramai ho il novanta per cento di amici fotografi…
Perimetro fuori dai confini italiani cosa sta facendo attualmente?
Un progetto che si chiama School of Curiosity, a Nairobi. È praticamente una summer school sul tema dell’auto-racconto. Un progetto di fotografia sociale e dove cerchiamo dei finanziamenti e ci dobbiamo attivare per delle raccolte.
Vuoi ingrandirti con Perimetro?
Non so se voglio ingrandirmi nel senso che quello che è successo in Perimetro è sempre stato molto spontaneo, la maggior parte delle cose, direi il 95%, sono arrivate dall’esterno, anche i progetti su commissione. Diciamo che ci sono dei territori inesplorati che m’interessano, come la didattica, che sono uno spazio fisico questa non ti nascondo, è una cosa che mi piacerebbe strutturare. Quindi in questo momento potrebbe diventare qualcos'altro ma questa liquidità mi piace. Io ho anche un altro aspetto, quello dell’agenzia: la Kind-Of Management che è la mia l’agenzia commerciale con un team di fotografi che lavora su commissionati di moda, pubblicità, eccetera.
C’è anche chi pensa che tu abbia fatto di Perimetro una sola operazione commerciale. Pensi di dare fastidio a qualcuno?
Ho “rotto le palle” a un sacco di gente.
Non sei amato, sei invidiato…
Non sono amato. All’inizio è una cosa di cui ho sofferto, mi dicevo: ma perché? Poi mi sono reso conto che sono le normali dinamiche. A Perimetro abbiamo sempre cercato di inventarci delle cose, per cui se c’era qualcuno che faceva la medesima cosa in quel settore… Quando abbiamo fatto la vendita delle stampe, a un certo punto le gallerie si sono infastidite. E poi sì, c’è anche qualche fotografo che si sente escluso, ce n’è uno in particolare di cui non farò il nome…