Dallo Ior arriva un versamento da 13,8 milioni di euro direttamente a Papa Leone XIV. O quasi. È questo il dividendo che la banca vaticana — Istituto per le Opere di Religione — ha deciso di staccare per l’anno 2024, a fronte di un utile netto in crescita del 7 per cento, pari a 32,8 milioni. Non sono i fasti del 2012, quando si toccarono gli 86 milioni, ma nemmeno i tempi bui degli anni centrali del pontificato di Papa Francesco. E soprattutto, lo Ior oggi è un’altra cosa: risanato, normalizzato e ristrutturato, come ha raccontato anche Bloomberg. È l’unica istituzione autorizzata a fornire servizi finanziari nello Stato della Città del Vaticano e, come ricordano con enfasi i suoi vertici Jean-Baptiste Douville de Franssu e Gian Franco Mammì, ha ormai fatto della prudenza e dell’etica i suoi due pilastri. La raccolta tocca i 5,7 miliardi, i clienti sono 12mila, i dipendenti 105, ma più dei numeri, colpisce il lessico usato nel comunicato stampa che accompagna il bilancio. Dopo anni di formule più neutre — “opere di religione”, “missioni caritatevoli” — quest’anno torna esplicitamente la dizione “destinati al Santo Padre”. E qui si apre un interrogativo interessante: quei soldi, a chi appartengono davvero? E a cosa serviranno?

Nel diritto canonico, il termine Santa Sede “può essere intesao in una duplice accezione: in senso stretto, indica l’ufficio proprio del Sommo Pontefice (can. 331 c.j.c.), in senso lato, comprende, oltre alla figura del Sommo Pontefice, anche gli uffici e gli organismi della Curia Romana (can. 360 c.j.c.)”. Forse è per questo motivo, che nei fatti, i due soggetti si sovrappongono spesso, al punto che nella prassi finiscono per coincidere. Quando lo Ior parla di utili destinati al Santo Padre, il messaggio è, più che contabile, simbolico. Il Pontefice riceve la somma per gestirla a sua discrezione, sì, ma l’uso “personale” è fuori discussione. Non è un portafoglio privato, è un fondo d’intervento a disposizione di chi — in quel momento — guida la Chiesa universale. Potrà sostenere opere caritative, missioni, progetti di pace, ma sempre in quell’alveo. Il ritorno alla centralità papale nel linguaggio del bilancio potrebbe anche essere una mossa di chiarezza (o di recupero d’autorità) dopo i pasticci emersi nel processo alla Segreteria di Stato, dove lo Ior chiese la restituzione di fondi indirizzati al Papa, provocando un corto circuito giuridico: perché in teoria, Papa e Segreteria sono una cosa sola. Intanto, l’istituto continua a sbandierare la sua fedeltà alla Dottrina Sociale della Chiesa, con investimenti etici, niente derivati, e nessun coinvolgimento in armi, gioco d’azzardo, alcol o farmaceutiche sospette. E con risultati, a quanto pare, ottimi: il 79 per cento delle gestioni “cattoliche” ha battuto i benchmark nel 2024. Tutto bene, quindi? Quasi. Il rapporto è stato pubblicato senza conferenza stampa (ancora una volta), i dipendenti sono diminuiti nonostante le “nuove competenze” annunciate, e resta nell’aria una certa cautela che sa di vaticana prudenza. Ma una cosa è chiara: se lo Ior non fa più rumore, non è perché è meno potente. È perché oggi parla solo coi numeri, contrariamente a quanto chiedono da tempo giornalisti e addetti ai lavori. E con assegni (o bonifici) silenziosi da 13,8 milioni.
