C’è una storia ancora poco raccontata ma dai contorni potenzialmente enormi che riguarda il nuovo papa Leone XIV, lo statunitense Robert Francis Prevost. Per la prima volta, infatti, il successore di Pietro è un Papa nordamericano, benché Prevost abbia trascorso gran parte della propria attività in Perù, prima come missionario e poi come vescovo. Ma è altresì vero che resta pur sempre un cittadino statunitense e, come tale, è soggetto al regime fiscale degli Stati Uniti. E proprio lo scontro tra le gabelle di Washington, secondo alcuni tra le più cervellotiche e inique al mondo, e la sua nuova carica di Pontefice, potrebbe presto insorgere un motivo di conflitto. Un conflitto nel quale trova spazio anche l’ipotesi che gli Stati Uniti possano, per interposta persona d’eccezione – il Papa, appunto – esercitare uno spionaggio finanziario sulla Santa Sede.

Gli Stati Uniti hanno un regime fiscale piuttosto controverso. I cittadini, infatti, sono tassati sulla base del reddito globale, che include anche i guadagni maturati dal lavoro all’esterno. Chi vive e lavora fuori da confini nazionali, infatti, è tenuto a presentare la dichiarazione dei redditi Usa in aggiunta alle imposte sul reddito dovute nel paese in cui risiede. Ci sono poi appositi accordi fiscali che Washington ha sviluppato con alcuni paesi che consentono alle persone di escludere fino a 130mila dollari di reddito annuo da questi conteggi ma si applica appunto a casi specifici. Quest’attività è sotto la competenza dall’Internal revenue Service (Irs) che, in passato ha controllato anche l’ex primo ministro britannico Boris Johnson, che nel rinunciò alla cittadinanza americana – era nato a New York – “dopo che l’Irs gli aveva imposto di pagare le tasse sul profitto derivante dalla vendita della sua casa a Londra”, scrive Milano Finanza. Ma ciò che potrebbe generare un vero e proprio incidente diplomatico dai risvolti – secondo alcuni – spionistici con la Santa Sede è il cosiddetto “Fatca” o Foreign Account Tax Compliance Act, un accordo con cui il governo Usa obbliga gli istituti finanziari esteri a segnalare le informazioni sui conti collegati a cittadini statunitensi.

Ecco, ora l’equazione diventa semplice. Dal momento la Santa Sede ha firmato un Fatca nel 2015 e che, pochi giorni fa, un cittadino statunitense è diventato Papa, il governo degli Stati Uniti è tenuto a sapere tutto sui conti vaticani? Anche Prevost, infatti, dovrebbe essere tenuto a segnalare qualunque conto finanziario estero con saldi superiori a 10.000 dollari. Ma, essendo anche il capo della Banca Vaticana alcuni hanno agitato l’ipotesi che debba rendicontare anche riguardo a essa. E, di conseguenza, ciò solleva la possibilità che la Santa Sede possa essere soggetta a sorveglianza finanziaria americana semplicemente perché il Papa è statunitense.

Secondo alcuni osservatori il nuovo Papa dovrà rinunciare alla cittadinanza per evitare un caso finanziario e diplomatico incredibilmente non previsto. A meno che non emergano nuovi accordi che possano isolare il caso finora eccezionale, ma che potrebbe chissà ripetersi in un futuro non troppo lontano. L’altra ipotesi è quella che gli Stati Uniti rivedano un regime fiscale per certi versi assurdo, che obbliga i cittadini fuori dal paese a una doppia imposizione fiscale. Un tema caro anche a molti manager e industriali statunitensi, che parlano la stessa lingua di Trump. Non a caso, il neopresidente si era impegnato a porre fine a questo regime non più tardi dello scorso anno, in piena campagna elettorale. Ora, la possibilità di frizioni con la Santa Sede potrebbe fornire ulteriore spago all’impopolarità della doppia tassazione, spingendo la Casa Bianca a prendere i provvedimenti che da anni contribuenti, giuristi e associazioni chiedono. Attendiamo con curiosità, nel frattempo, cosa ne sarà del contribuente Prevost quando il suo dossier arriverà alla burocrazia oltreoceano.