La Procura di Milano, nel silenzio solo apparente dei palazzi della finanza, continua a interrogare manager e a macinare documenti sulla cessione del 15 per cento del Monte dei Paschi di Siena (Mps), quel pacchetto da un miliardo e cento milioni di euro che il ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) – che detiene la maggioranza dell’istituto senese – ha piazzato lo scorso novembre con un accelerated book building che ha fatto rizzare le antenne a molti osservatori del settore. Nell’ambito dell’inchiesta, i pm Giovanni Polizzi e Luca Gaglio hanno già sentito il ceo di Unicredit, Andrea Orcel, e il general counsel di Mediobanca, Stefano Vincenzi, ricostruendo un puzzle in cui le tessere principali – Delfin, Caltagirone, Banco Bpm e Anima – finiscono sempre per incastrarsi a meraviglia. La stessa Guardia di finanza sta setacciando carte e verbali, alla ricerca di anomalie in un’operazione che ha destato qualche perplessità sulla possibilità di un mercato alterato più di quanto si voglia ammettere. E infatti c’è già chi è finito sul registro degli indagati, tra persone fisiche e società, mentre filtrano ipotesi pesanti: aggiotaggio, ostacolo alla vigilanza, distorsione del mercato. Il fascicolo, nato da una querela per diffamazione di Mediobanca, è diventato un contenitore esplosivo in cui finiscono esposti alla Consob e alla Banca centrale europea (Bce), documenti sugli acquisti incrociati di azioni Generali e Mediobanca da parte di Caltagirone e Delfin e una lunga lista di operazioni che fanno apparire questo risiko come un patto di ferro tra i soliti noti. Non bastava la vendita contestata: il nuovo cda uscito da quell’affare ha persino alzato la posta puntando a Mediobanca, mentre i comunicati del Mef provavano a dare una verniciata di regolarità a un’asta che di aperto aveva ben poco. Altro che trasparenza: il mosaico si arricchisce di dettagli sempre più sinistri, tra omissioni, comunicazioni sparite da Bloomberg e un mercato che di libero ormai ha solo il nome.

In questo scenario già torbido, Andrea Orcel gioca la sua partita, ma si ritrova a combattere contro un sistema apparentemente complesso. Prima la porta sbattuta in faccia sull’acquisto del 10 per cento di Mps nella privatizzazione di novembre, poi la scalata a Banco Bpm irta di ostacoli, tra Antitrust Ue e un Golden Power che sembra fatto apposta per far deragliare l’operazione. E mentre Bruxelles si prepara a dare il via libera alla fusione con l’obbligo di cedere filiali e prestiti, resta la mina vagante delle prescrizioni del governo italiano, che appaiono come un guinzaglio stretto più da ragioni di controllo politico che di sicurezza nazionale. Uscire dalla Russia, congelare portafogli, blindare i rapporti depositi/impieghi: un labirinto regolatorio che più che difendere gli interessi strategici sembra fatto per tenere in ostaggio le mosse del banchiere spagnolo. Il risultato? Un risiko bancario che puzza di "Far West", come lo ha definito senza mezzi termini Carlo Messina, e che rischia di lasciare il sistema finanziario italiano in balia di manovre da saloon. Tra procure che scavano, governi che prescrivono e manager che denunciano, resta un interrogativo inquietante: chi controlla davvero il gioco? E soprattutto: quanto ancora reggerà il castello prima che crolli sotto il peso delle sue stesse ombre?