Partirei dalla notizia per poi giungere alla dimostrazione del montante terrapiattismo ideologico militante che temo consegnerà alla giusta causa del popolo palestinese danni incalcolabili. Intanto la notizia, nella sua essenzialità: a Torino un centinaio di attivisti, presumibilmente molto giovani, ragazzi e ragazze, cosiddetti pro-Pal hanno fatto irruzione nella sede del quotidiano “La Stampa” (vuota, era giorno di sciopero). Contro la redazione: vernice, letame, slogan ingiuriosi, slogan scanditi con ottusa sicumera assente a ogni sentore di ironia: “Giornalista terrorista sei il primo della lista!” Tutto ciò con l’obiettivo di stigmatizzare la “complicità” dei media giornalistici rispetto al “genocidio” messo in atto, tra Gaza e Cisgiordania, da Israele e le sue Idf, sotto il governo di Netanyahu e degli alleati dell’estrema destra fondamentalista ebraica. Irrilevante al loro sguardo che il quotidiano torinese sia tra chi più ha simpatizzato con le ragioni dei palestinesi, tra le sue firme Rula Jebreal e Francesca Mannocchi. Nulla! Anche per queste ultime, immagino, l’intimidazione “Giornalista terrorista-sei il primo della lista!”
Interpellata sull’accaduto, riporta l’ANSA, Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, indossando la tonaca di Savonarola, ha dichiarato: “Condanno l’aggressione a ‘La Stampa’, ma sia un monito”. E ancora: “È necessario che ci sia giustizia per quello che è successo alla redazione. Sono anni che incoraggio tutti quanti, anche quelli più arrabbiati, la cui rabbia comprendo e credetemi anche la mia, che dico bisogna agire così" con le mani alzate “non bisogna commettere atti di violenza nei confronti di nessuno, ma al tempo stesso che questo sia anche un monito alla stampa per tornare a fare il proprio lavoro, per riportare i fatti al centro del nuovo lavoro e, se riuscissero a permetterselo, anche un minimo di analisi e contestualizzazione”.
Nel nostro caso il “monito” mostra, per usare le parole di un filosofo marxista, György Lukács, “l’anima e le forme” di un'irruzione violenta e squadristica di un gruppo di analfabeti assenti a ogni raziocinio politico dentro le stanze della redazione di un giornale che peraltro, ripeto, ha sempre manifestato vicinanza alle ragioni di chi è a favore del popolo palestinese? Intendiamoci, anche se l’irruzione avesse riguardato una testata espressamente filo-israeliana l’atto sarebbe da condannare.
C’è da supporre che il cosiddetto popolo pro-Pal che nei mesi scorsi ha riempito le piazze innalzando le bandiere della Palestina come giusta vicinanza fanoniana ai “dannati della terra”, da tempo ravvisa in Francesca Albanese il proprio punto di riferimento morale e dialettico. Irrilevante, sempre al loro sguardo, il tratto caratteriale, che la relatrice assume fuori da ogni protocollo formale, freddezza da bisturi, nessuna concessione al protagonismo emotivo, che invece richiederebbe il suo ruolo. “Da gesuita del Paraguay”, se è concessa una metafora che si attaglia a chiunque mostri una postura espressamente inquisitoria con picchi di insofferenza propria di chi sia convinto di incarnare superiorità morale, sconfinando nel compiacimento narcisistico, ora da dolente ora militante politica cui è demandata la cancellazione dei dolori del mondo.
Verso la Albanese e molti manifestanti pro-Pal, si sappia, si è istaurato un legame del tutto fideistico, una modalità che “a sinistra” appare, temo, ricorrente: Tsipras, Zapatero, per citare i primi che giungono alla memoria. Fuori d’ogni laicità, semmai adesione miracolistica, apotropaica. Inutile aggiungere che il terrapiattismo ideologico che ha trovato nella questione palestinese un riferimento, non sembri un paradosso semantico, “cristologico” davanti al quale come nelle processioni del venerdì di Pasqua o della stessa Santeria cubana o del vudù avanza il simulacro di Francesca Albanese non conosce sfumature dialettiche, nella percezione politico-militante di molti la Relatrice appare infallibile per dogma, in una sorta di “estasi collettiva”, mutuando lo stesso profilo attitudinale della persona, meglio, della funzionaria in questione. Ogni eventuale critica alla modalità espressiva della Albanese (come quando a Reggio Emilia, in occasione della consegna del primo tricolore, ha ripreso il sindaco Pd Marco Massari colpevole, a suo dire, di avere simmetricamente citato sia le vittime palestinesi sia le vittime del 7 ottobre da parte dei criminali islamisti di Hamas, si è rivolta a Massari con severità da titolare del collegio “Pier Paolo Pierpaoli” di Gian Burrasca: “Mi deve promettere che questa cosa non la dice più”) viene percepita come inaccettabile, “sacrilega”, mossa da un’implicita accettazione del genocidio messo in atto da Israele, c’è in questo molto della peggiore ossessione paranoica già comunista, sembra di intravedere l’ombra del procuratore generale dei processi farsa di Mosca, negli anni Trenta, sotto lo stalinismo, Andrej Vyšinskij, giurista nonché ex Ministro degli affari esteri dell'Unione Sovietica, le cui requisitorie si concludevano con un invito: “Uccidete questi cani rabbiosi. Morte a questa banda che nasconde al popolo i suoi denti feroci, i suoi artigli d'aquila! Abbasso l'avvoltoio Trotsky, dalla cui bocca sbava veleno sanguinolento che imputridisce i grandi ideali del Marxismo! Abbasso questi animali immondi! Mettiamo fine per sempre a questi ibridi miserabili di volpi e porci, a questi cadaveri puzzolenti!”
Sto in paziente attesa che a Sinistra si prendano le distanze, meglio, si affermi che la pubblica modalità argomentativa stessa del soggetto in questione appare, nel migliore delle ipotesi, imbarazzante: per le ragioni della causa palestinese stessa, innanzitutto.
Ritrovandomi paradossalmente a sottoscrivere ogni parola espressa sulla Albanese da Michele Serra su “Repubblica. Così Serra: “C'è da chiedersi se per i manifestanti pro-Pal che hanno invaso e vandalizzato la redazione della Stampa [...], sia totalmente trascurabile [...] il ruolo politico che il fondamentalismo islamista ha avuto negli ultimi vent'anni (almeno). Dalla repressione delle primavere arabe alla teocrazia femminicida di Teheran, dall'orribile regime afgano, per il quale è proibito anche cantare, e per le bambine andare a scuola, alla torsione religiosa che Hamas ha imposto alla resistenza palestinese, [...] è mai possibile che i ragazzi pro Pal non vogliano o non possano mettere a fuoco quanto sia nemico della libertà il fondamentalismo islamico (tanto quanto il fondamentalismo cristiano dei Maga, tanto quanto il disgustoso suprematismo biblico dei coloni israeliani in Cisgiordania)? Davvero basta essere ‘contro l’Occidente' per giustificare qualunque paranoia reazionaria, da Putin al jihad? Ma se così stanno le cose, a che vale invocare la libertà e i diritti come bene universale? E con il patriarcato, che nell'Islam fondamentalista conosce il suo trionfo, come la mettiamo?”
In tutta evidenza, in ogni parola, gesto, prossemica, postura – il dito indice sollevato come accade agli ayatollah nell’esercizio della “polizia morale” l'immagine di Francesca Albanese mi viene restituita desolante.
Segnata dal portato della peggiore subcultura militante già vista negli anni Settanta che si ripresenta in tutta la sua assenza di visione politica.
Alla fine non resta che aristocraticamente - non c’è altra parola, temo - ignorare chiunque, privo di lucidità politica, e assente a ogni forma di ironia, necessaria anche nelle tragedie, ossessionato in modo manicheo, ritiene che mettere in discussione l’Albanese sia implicitamente rendersi “complice” del genocidio, essere “servi degli Usa”, come un’ennesima variante del terrapiattismo, in questo caso politico, replay di una storia intellettualmente assai minore e fallimentare per la sinistra stessa e il suo velleitarismo, un’avventura già vista. Anche in questo caso, come spiegano i libertari, sarà una risata che li seppellirà.