Non so chi disse per primo la frase “sempre meglio che lavorare” riferito al mestiere di giornalista, la mia memoria si ferma al titolo di un libro di Luca Goldoni (autore purtroppo quasi dimenticato) del 1989. Non so perché Marco Travaglio voglia regalare questo motto – al quale chiunque frequenti il mestiere è affezionato – alla politica. Lo ha ripetuto ieri, ospite da Lilli Gruber, a proposito dello sciopero del 17 novembre promosso da Maurizio Landini e osteggiato da Matteo Salvini: “Salvini è una persona che non ha mai lavorato in vita sua”. Il ribaltamento della frase sulla politica è un vecchio luogo comune del Cinquestellismo, secondo cui avere lavorato, in qualsiasi campo, possibilmente lontano dalla politica, rendeva migliori di chi aveva fatto della politica il proprio lavoro. Ora, è pur vero che essere eletto parlamentare nei Cinquestelle delle origini era sempre meglio che continuare a lavorare, che ne so, come bidello, tanto non dovevi pensare ma ubbidire altrimenti ti espellevano, ed è anche vero che i disastri causati dai politici di professione sono inenarrabili, ma siamo sicuri sicuri che i giornalisti lavorino di più dei politici?
Prendiamo il caso in esame, Matteo Salvini. Io la sua vita non la vorrei fare. Fare i video da postare sui social in cui si ingozza come una scimmia allo zoo per promuovere, alla fine, che ne so, un salame italico. Viaggiare in lungo e in largo cambiandosi le felpe. Volare in Russia a fare cattive figure. Volare in America a fare cattive figure. Sloganare, grugnire, sintonizzare il suo pensiero su quello dell’elettore medio (che poi non esistono elettori medi, voi li avete mai visti, gli elettori?). Citofonare. Fare della Lega un partito nazionale e mostrare amore verso i terroni. Abbaiare alle barche. Scoprire che il tuo social media manager si drogava. Viaggiare ancora. Sapere che un leghista diventa assessore alla cultura e all’identità siciliana (anche questo si è dovuto sorbire, il povero Salvini). Governare coi Cinquestelle, tradire o essere tradito dai Cinquestelle. Governare con Draghi ed essere sorpassato da Giorgia Meloni. Non reggere il Mojito. Viaggiare. Frequentare i leghisti. Essere leghista. Emendare o non emendare la legge di bilancio. Essere sempre il secondo. Non andare in Albania. Viaggiare ma non quanto si vorrebbe. Non trovare 49 milioni. Passare da comunista a leghista. Essere un ex comunista dalla parte degli imprenditori (sì, anche Giuliano Ferrara che lo chiama “il truce” lo ha fatto, però Giuliano è a dieta e Salvini, per questioni di lavoro no). Difendere la fammiglia tradizionale senza avere una famiglia tradizionale. Sentirsi celtico avendo le sembianze di un nordafricano. Smettere di essere celtico per diventare italico. E ci fermiamo qui. Secondo Marco Travaglio questo non sarebbe lavorare, mentre fare il giornalista alla Travaglio sì.
Insomma: essere pagati per leggere e fare le battute è il mestiere che ognuno di noi vorrebbe fare (poi certo, ci sono gli inviati di guerra e gli stagisti, ma quello non è il mestiere di Travaglio). Voglio dire: opinionare. Ma chi in Italia non vorrebbe essere pagato per opinionare? Gli ita(g)liani lo fanno gratis al bar! I politici si fanno il mazzo così per una miseria (Fassino docet) e devono anche sorbirsi le perculate di Travaglio, mentre Travaglio se ne sta alla scrivania a perculare. Dai, marcolì, strenuo difensore della verità, tu che hai fondato un quotidiano che dice quello che gli altri non dicono, tu che decidi quali notizie sono notizie e quali non lo sono per dare ai tuoi lettori una lettura reale del paese, e dai, su, non fare il prezioso, dillo, ripetilo con noi: fare il giornalista è sempre meglio che fare politica. Adesso scrivilo cento volte alla lavagna: fare il giornalista è sempre meglio che fare il politico.