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Chi ha incastrato Kevin Spacey al 'Minimarket'? La serie Raiplay è inaccettabile vilipendio di un mostro sacro del cinema mondiale, altro che #MeToo

  • di Grazia Sambruna Grazia Sambruna

29 dicembre 2025

Chi ha incastrato Kevin Spacey al 'Minimarket'? La serie Raiplay è inaccettabile vilipendio di un mostro sacro del cinema mondiale, altro che #MeToo
Da qualche giorno è disponibile su RaiPlay 'Minimarket', una serie che vorrebbe essere comedy ma che, in realtà, rimane soltanto il pretenzioso sogno bagnato di un figlio d'arte, Filippo Laganà, mente e protagonista di questo incubo a puntate. Puntate in cui è clamorosamente coinvolto perfino Kevin Spacey, mostro sacro del cinema con due Oscar in curriculum. Cancellato da Hollywood nonostante sia stato assolto dalle accuse di molestie sessuali, il monumentale attore è stato incastrato in questa brodaglia senza senso che nemmeno 'Boris' avrebbe mai osato prevedere. Era andata meglio a John Travolta col ballo del qua qua a Sanremo...

di Grazia Sambruna Grazia Sambruna

Scordatevi l'imbarazzo di John Travolta alle prese col ballo del qua qua qualche Sanremo fa. Qui siamo a un livello superiore di disagio, forse mai visto prima (e, speriamo con tutto il cuore, mai più raggiungibile). Abbiamo visto 'Minimarket', la serie disponibile su RaiPlay ideata da Filippo Laganà, anche protagonista di cotanto caotica sòla. Tanto per cominciare, qui siamo di fronte a un figlio d'arte: 31 anni, al nostro ha dato i natali Rodolfo Laganà, importante attore e regista teatrale romano. Nel suo delirio di onnipotenza, di questo si tratta e siamo qui a spiegarvene dolorosamente i perché, il buon Filippo è riuscito a coinvolgere perfino Kevin Spacey, monumento del cinema mondiale con due Oscar in saccoccia, purtroppo caduto in disgrazia dopo le accuse di molestie sessuali (da cui è stato prosciolto) di qualche anno fa, nella piena isteria di massa dovuta allo scoppio del #MeToo (che ha fatto anche cose buone, ma di certo non questa). 'American Beauty', 'Seven', L.A. Confindential', impossibile citare tutti i capolavori di cui è stato protagonista Spacey, non ultima la serie di punta (grazie a lui) con cui nei panni di Frank Underwood ha contribuito al lancio di Netflix in Italia, 'House of Cards'. Poi, è stato cancellato da Hollywood e oggi lo ritroviamo qui, tra gli scaffali di un 'Minimarket' ad assecondare il sogno bagnato del già citato Laganà: diventare showman. È tutto sbagliato, dal vilipendio di cotanto mostro sacro del cinema alla struttura delle puntate, rovinate dall'ego strabordante di Laganà che fagocita qualunque delle già poche chance di intrattenimento che la serie vorrebbe offrire. Con un notevole (ma randomico) parterre di special guest, si passa da Alexia a Francesco Pannofino, ma troviamo pure Mietta ed Enrico Bertolino, 'Minimarket' è il capriccio di un 31enne convinto di possedere enormi doti artistiche e che scalpita per mostrarcele tutte quante. Invano. Un disastro ombelicale annunciato, una manifesta ingiustizia da vendicare. Proviamoci, dunque. Draghiamo questo ennesimo abissso di cui si sarebbe potuto (e dovuto) fare a meno. 

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Un post condiviso da Filippo Laganà (@filippolaganaoriginal)

"Solo nel Paese di Signorini uno come Spacey poteva trovare lavoro". Mi sono trovata di fronte questo tweet e ho bestemmiato, non mi importa scriverlo pubblicamente, io ho bestemmiato. Perché rappresenta il cuore del qualunquismo nostrano, delle cose che si scrivono per sentito dire a spizzichi ma che contribuiscono a formare un'opinione, quella di massa. Kevin Spacey, pur essendo stato prosciolto dalle accuse, resterà per sempre un molestatore nell'immaginario collettivo. Su Alfonso Signorini, invece, ci sono due puntate di 'Falsissimo', lo show YouTube di Fabrizio Corona, piene di accuse gravi, sì, ma ancora tutte da dimostrare nelle sedi opportune. Per semplificare, però, la gente ha già deciso che sia colpevole, marcio, 'porco', come lo definisce a più riprese l'ex dei paparazzi. Perché molte persone, purtroppo, si limitano a ripetere ciò che sentono dire più spesso e, soprattutto, più forte. È sempre stato così da che mondo è mondo. E infatti il mondo è sbagliato. Comunque, ciò non toglie che stiamo vivendo in un universo in cui Kevin Spacey e Alfonso Signorini vengono messi con grande serenità sullo stesso piano. E qui sì, io personalmente la vedo la vita che mi passa davanti agli occhi un minuto prima di morire. Italian Beauty. 

Ecco, sempre a proposito di 'Italian Beauty', cosa non funziona in questa raccapricciante sòla che prende il nome di 'Minimarket'? Tutto. Partiamo dal protagonista, Filippo Laganà che interpreta Manlio Viganò. Ossia un over 30 ricchissimo di famiglia che vivacchia a Roma coi soldi del papi milanese (Bertolino), proprietario di una enorme e danarosa azienda. Manlio fa innumerevoli provini, da cui viene puntualmente scartato e ogni tanto si ricorda di lavoricchiare per passare il tempo, non perché ne ha bisogno. Infatti, arriva in ritardo, è perennamente distratto, se gliene potesse fregare di meno vedrebbe l'erba dalla parte delle radici. Si vede che non ha bisogno di un impiego per campare. E questo è fastidioso. Laganà, santocielo, almeno scriviti povero, no? Fingi! Come puoi pretendere che il pubblico empatizzi con un figlio di papà adulto e perdigiorno, con le terga sempre ben coperte dalla nascita? Ce lo dice subito il voice over, fin dalla prima puntata perché dovremmo sentirci coinvolti dalla sua storia personale: "Manlio ha il vizio più brutto di tutti". L'eroina? No, purtroppo. Il suo "vizio" è quello di "sognare". E può farlo benissimo, infatti, mica deve pensare all'affitto. Povera stella (nata con la camicia). 

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Manlio Viganò, oltre a continuare a parassitare i danè del papi nonostante abbia già superato i 30 anni, ci viene raccontato come un visionario: dopo aver fortuitamente incontrato Kevin Spacey mentre faceva il parcheggiatore (anche questo, impiego che gli è durato due minuti tanto mica gli serviva), si accozza alla fidanzata e, per santa intercessione dell'amata, diventa commesso nel minimarket del padre di lei (che non lo sopporta, voce del popolo). Non arriva mai puntuale, passa le giornate a dare buoni consigli agli avventori, ovviamente uno più sciroccato dell'altro, oppure chiuso nel retro a 'sognare' di diventare famoso. Un bel faticare, non c'è che dire. Intanto, l'incontro casuale con Spacey gli fa sviluppare una ossessione che sarebbe da discutere in terapia: l'attore gli appare ogni giorno, tipo Madonna di Lourdes, cercando di regalargli dritte per fare carriera nel mondo della televisione. Non del cinema, no, della televisione. Perché nulla qui deve avere un senso, deve solo sembrare un (brutto) casino. Il minimarket, unica location della serie oltre al green screen, si trova proprio di fronte agli studi Rai di via Teulada e allora Manlio continua a sognare, pregando un murales fake di Raffaella Carrà, di poterci entrare per davvero, un giorno o l'altro. Ovviamente e subito come 'showman', mica stagista. 

Dunque per metà puntata Manlio 'sogna' di gloria, mentre per l'altro 50 % di ogni epidosio (ogni episodio!, ndr) canta e balla in modo gratuitamente avulso dalla trama. Massacra i brani degli artisti più immortali di tutti: da Pino Daniele a Raffaella Carrà appunto, perché pensa di essere bravissimo. I riferimenti, si noti per esempio il bianco e nero, sono alla bella tv di una volta, ai varietà che oggi purtroppo non esistono più. Ma ai quali lui si ispira perché sì, sente d'avere un destino, d'essere davvero nato per riportarli in onda come meriterebbero. Ma chi cazzo sei, Manlio/Filippo? Fiorello, per caso? 

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Kevin Spacey, involontario mentore onirico e sgradevolmento tinto di biondo ramato in capo, purtroppo non gli consiglia mai di lasciar perdere o, se non altro, di fare un po' meno. No, seppur burbero, lo incoraggia sempre. In primis perché non si trova realmente lì, poi anche perché indovinate un po' chi ha ideato e scritto l'intera 'sceneggiatura' di 'sta roba? Esatto, Filippo Laganà. Fisiognomicamente un ibrido tra Lodo Guenzi de Lo Stato Sociale e Topo Gigio, costui tiene tanto a vendersi come uno di noi, ma non riesce nemmeno a scrivere un personaggio che possa ricordare, sia pure da lontano, un ragazzo normale con aspirazioni forse più grandi di lui che intende perseguire nonostante le difficoltà. Infatti, non esistono difficoltà sul suo percorso. A parte che sì, 'Uno su Mille ce la fa' (si dà modo di storpiare anche questa canzone di Morandi per almeno 10 minuti di fila come tutte le altre), ma se il papi ti paga vitto e alloggio a Roma, dopotutto puoi continuare a campare di sogni di gloria. E purtroppo Manlio lo fa, molto fastidiosamente, senza mai rendersi conto della propria fortuna. Anzi, la sbatta in faccia al pubblico, proprio perché non se ne accorge, quello è diritto di nascita, tipo avere i capelli ricci. 

Come si può immaginare la struttura di ogni episodio, val la pena ricordarlo, con la prima metà di gag (inconcludenti) miste a fabiovolate farcite di retorica da discount, e la seconda con un 'one man show' di canti e balli forsennati su green screen? Che fine fa la storia? C'è, a tutti gli effetti, una storia all'infuori della contemplazione della lanuggine ombelicale di Manlio/Filippo? No, infatti. Sta tutto lì. E a noi, come al poro Kevin Spacey, tocca assistere inermi a cotanto sgraziato sfoggio, per dieci pregnantissime puntate di nulla pompato a ego compresso. 

Non se lo meritava Spacey, non se lo meritava RaiPlay, men che meno il pubblico tutto. Per scrivere una sceneggiatura del genere senza darle fuoco subito dopo averla terminata, ci vuole un distacco dalla realtà strabordante, criminoso. Filippo Laganà lo ha avuto, ha deciso di volare là dove osano le aquile, però con cinque euro di budget e un sogno: dimostrare d'essere divertente (e super appetibile per la tv). Un self branding, uno spottone a se stesso interminabile e senza altro scopo. Non possiamo nemmeno dire 'pretenzioso' perché qui la vera protagonista è un'unica pretesa: quella di Laganà che intende essere preso molto sul serio. Senza un briciolo di ironia, sarcasmo o quantomeno rispetto per il mostro sacro del cinema che si ritrova al fianco.

L'impressione è che, nella sua testa, Filippo/Manlio di Oscar ne abbia già vinti almeno 24. L'unico momento in cui si gode è quando Pannofino, durante un veloce cameo, gli fotte 10 euro (del papi). Personalmente, passerò il prossimo anno a cercare di rimuovere il trauma d'aver visto questa roba, d'essermi fatta sequestrare dai goffi sogni di gloria di costui. Con un enorme rimpianto che mi ossessionerà forse fino alla fine dei miei giorni: non c'è lieto fine. Perché Spacey, pur costretto a recitare a tradimento il celebre monologo di 'American Beauty', al termine di 'sta cafonata non diventa John Doe. Davvero un gran peccato capitale. Ma in cuor mio sono certa che, come tutti noialtri, avrebbe tanto voluto. #MeToo. 

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