Sarà che su Garlasco si sente odore di soluzione vicina, sarà che un recente docufilm ha riacceso l’interesse, sarà che finalmente dei documenti richiesti per anni sono stati consegnati, ma l’impressione è che, se mai si smetterà di parlare dell’omicidio di Chiara Poggi, sarà per ricominciare con il caso di Yara Gambirasio, uccisa a Brembate Sopra nel 2010. Dopo la condanna di Massimo Bossetti nel 2014 per l'omicidio della ragazza, infatti, continuano a emergere dubbi che pongono in discussione la certezza della sua colpevolezza. E se è vero che i social, almeno sul crime, anticipano i tempi della giustizia, allora diventa facile fare l’associazione con gli interrogativi che fino a poco più di un anno fa riecheggiavano anche nel caso di Alberto Stasi. Quei due, Massimo Bossetti e Alberto Stasi, si sono anche conosciuti in carcere fino a diventare qualcosa di molto simile a due amici che hanno visto la loro condanna basarsi su prove che non tutti ritengono definitive. Entrambi i casi aprono alla stessa fondamentale domanda: è stato rispettato il principio dell’"oltre ogni ragionevole dubbio"?
Nel caso di Yara, il ritrovamento del suo corpo, a più di tre mesi dalla scomparsa, scatenò subito perplessità. Le ricerche, condotte da polizia e volontari, non avevano portato a nulla, sollevando dubbi sulla gestione delle indagini anche da parte di un elicotterista che aveva partecipato alle ricerche e che si lasciò sfuggire un “non è mai stata davvero lì”. Ulteriori misteri sono emersi con la scoperta di ossido di calce sul corpo, che ha indicato una possibile conservazione in un ambiente chiuso, prima dell'abbandono nel terreno in cui fu ritrovata. Questo ha alimentato la pista del cantiere di Mapello, ma non sono mai emersi veri legami concreti tra Bossetti e il cantiere.
La condanna di Bossetti, piuttosto, si è basata in gran parte sul DNA parziale rinvenuto sugli abiti di Yara, ma non essendo associato da subito a un crimine sessuale, la presenza di DNA di Bossetti ha lasciato più domande che risposte. Altri dubbi riguardano la metodologia delle indagini: la mancanza di collegamenti diretti tra Bossetti e la scena del crimine e l'assenza di tracce fisiche a conferma della sua presenza hanno fatto sorgere il sospetto che la condanna sia stata forzata da una ricerca di un colpevole, piuttosto che da prove concrete.
Nel 2022, la Corte di Cassazione ha deciso di aprire la possibilità di una revisione del processo, accogliendo la richiesta della difesa di esaminare nuovamente i reperti biologici. Ma è andata come andata. Ecco perché il parallelo con Garlasco è inevitabile. Come Bossetti, Alberto Stasi è stato condannato su indizi che non hanno convinto tutti. E che più passa il tempo e più vacillano. Perché manca un movente chiaro e c’è ancora oggi una oggettiva difficoltà nel ricostruire la dinamica dell'omicidio. Con la prova scientifica che ha padroneggiato anche rispetto alla capacità – che appare ormai perduta – di indagare come si faceva una volta: affidandosi un po’ anche all’istinto, ascoltando chiunque, scandagliando ogni ipotesi senza la necessità di un punto di arrivo reimpostato o di un condizionamento. La giustizia è ormai vittima di metodi e processi che si concentrano troppo sulle prove scientifiche, trascurando altre possibili spiegazioni?
L’elemento centrale è e dovrebbe restare il “ragionevole dubbio”. Nel caso di Bossetti, la difesa ha sottolineato che il DNA parziale non era sufficiente a condannarlo senza alcun margine di incertezza. Nel caso di Stasi – con ben altre possibilità economiche del protagonista (purtroppo bisogna dirlo) – la difesa non s’è limitata a “sottolineare”. E sta venendo fuori una nuova verità che conferma non certo l’innocenza di Alberto Stasi (che resta tutta da dimostrare) ma che in questa Italia si può passare una vita in galera anche fermandosi ben prima di un doveroso “oltre”. Oltre ogni ragionevole dubbio.