Per il delitto di Garlasco e per la vicenda della morte di David Rossi è servito l’intervento televisivo delle Iene perché le procure tornassero a guardare dentro fascicoli ormai archiviati nel passato remoto. Nel caso di Yara Gambirasio, almeno per ora, non c’è alcun programma tv a fare da detonatore. Eppure il meccanismo che si sta innescando assomiglia a quello visto altrove: un punto apparentemente secondario, rimasto ai margini delle sentenze definitive, diventa il varco attraverso cui la difesa prova a rimettere in discussione l’impianto accusatorio. Qui quel punto si chiama DNA di “Ignoto 1”. E c’entra quell’aplotipo Y di cui, ormai, abbiamo sentito parlare tutti. Sono passati quasi quindici anni dalla scomparsa della tredicenne di Brembate di Sopra e sei da quando la Cassazione ha reso definitiva la condanna all’ergastolo di Massimo Giuseppe Bossetti. Sul piano formale il caso è chiuso, la verità giudiziaria è cristallizzata come per Alberto Stasi. Ma finalmente la Corte d’Assise di Bergamo ha appena concesso ai difensori del muratore di Mapello – gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini – qualcosa che inseguivano fin dal primo grado: l’accesso ai file multimediali e alla documentazione tecnica delle analisi genetiche che condussero all’identificazione di “Ignoto 1”. Non è una revisione del processo. Non è un nuovo dibattimento. È, però, il punto in cui una vicenda considerata intoccabile torna a muoversi, almeno sul terreno tecnico. Finora la “prova regina” del procedimento – il DNA sugli slip e sui leggings di Yara – era stata trattata come un blocco monolitico: ai giudici è arrivata la sintesi finale, la corrispondenza ritenuta statisticamente schiacciante (sì, “schiacciante” in un processo, e che “vale 0” in altra indagine) fra il profilo genetico ricavato dai reperti e quello di Bossetti. Tutto ciò che stava a monte restava sostanzialmente opaco alla difesa. Oggi lo scenario cambia: i consulenti di parte potranno esaminare i dati grezzi, le sequenze di amplificazione, le corse elettroforetiche, i tracciati generati dalle macchine. Quei grafici, quelle linee, quei picchi che chi si è occupato delle indagini sul delitto di Garlasco ha imparato a conoscere e che i periti della difesa hanno scandagliato alla ricerca di anomalie.
Insomma, lo stesso terreno su cui ora i tecnici di Bossetti proveranno a trovare un appiglio per intaccare le fondamenta della condanna. Il braccio di ferro con la Procura di Bergamo, durato anni e difficilmente spiegabile alla luce del principio del pieno contraddittorio, si è spezzato proprio su questo punto: l’impossibilità di un controllo indipendente sui “raw data” veniva letta dai difensori come una mutilazione del diritto di difesa. Da qui la lunga serie di istanze, ricorsi, esposti che finora si erano infranti contro la solidità di tre gradi di giudizio. Il via libera all’accesso non significa che i giudici mettano in dubbio ciò che hanno scritto nelle motivazioni passate in giudicato, ma restituisce a quella prova una dimensione meno dogmatica: non più un’oracolare “corrispondenza” certificata dall’alto, ma un percorso che, almeno in teoria, può essere ricontrollato. Su un altro fronte, però, nulla si muove. La difesa aveva chiesto di poter tornare ad analizzare le 54 provette di materiale biologico conservate al San Raffaele di Milano. Su quei campioni la risposta è rimasta negativa: il materiale viene considerato esaurito dalle ripetute analisi condotte dai RIS e dai consulenti dell’accusa in fase di indagine. La partita, quindi, si gioca tutta sui file e sulle carte, non più sulle provette. Il bersaglio dichiarato è individuare una discontinuità fra dato grezzo e risultato processuale: un’anomalia tecnica, un errore di lettura, un passaggio interpretativo capace di aprire una crepa nell’affidabilità del mosaico genetico. La faglia su cui la difesa insiste da anni è nota: il contrasto fra il DNA nucleare che chiama in causa Bossetti e il DNA mitocondriale che non coincide con il suo. Irrilevante, per l’accusa; potenzialmente decisivo, per chi siede al banco della difesa. È qui che entra in gioco l’articolo 630 del codice di procedura penale, quello che disciplina la revisione. Il testo è chiaro e spietato: per rimettere in discussione una sentenza passata in giudicato serve una prova nuova, oppure la dimostrazione che una prova decisiva sia inquinata da un errore oggettivo. Dubbi, perplessità, ricostruzioni alternative non bastano. L’accesso ai file, in questa prospettiva, è il grimaldello con cui si tenta di far saltare una blindatura. Se dai dati emergesse una discrepanza documentabile, il passo successivo sarebbe un ricorso alla Corte d’Appello di Venezia, competente per le revisioni. È lo stesso binario su cui si sta muovendo, per altro verso, la vicenda di Alberto Stasi nel caso Poggi. Solo che, nel caso Gambirasio, al momento non c’è nulla di più di una possibilità tecnica: nessuna istanza di revisione è stata accolta, nessun nuovo procedimento è stato aperto. Anche la Procura di Bergamo, interpellata nelle ultime settimane, ha ribadito che il fascicolo Yara non è oggetto di nuove attività istruttorie e che negli ultimi mesi non sono arrivate richieste formalmente ammissibili. Il quadro ufficiale resta quello di un caso chiuso. Colpevole individuato. Sentenza definitiva. Verità processuale consolidata. Intorno, però, continua a gravitare un universo fatto di dichiarazioni dal carcere, petizioni online, talk show, podcast che tornano ciclicamente sulle falle dell’inchiesta, sulle incertezze della catena di custodia, sulle zone grigie delle indagini.
L’accesso ai file introduce un elemento nuovo in questo scenario: non basta a dire che il processo si riaprirà, ma certifica che, almeno sulla prova regina, il tempo della discussione non è ancora finito. Mentre la giustizia penale procede per micro-passaggi e tempi lunghi, molto più veloce è la metamorfosi del racconto pubblico di casi come questo. Il delitto Gambirasio, negli anni, è diventato materia per libri, speciali tv, podcast, docuserie. Fra queste c’è anche “Il Caso Yara” di Netflix, prodotta da Quarantadue S.r.l., finita sotto la lente del Garante della Privacy. Il provvedimento dell’Autorità arriva come un contrappunto severo nel momento in cui la vicenda torna a sfiorare le aule di giustizia sul versante della prova scientifica. Il Garante ha dichiarato illecito l’utilizzo e la diffusione, all’interno della serie, di alcuni audio di messaggi e conversazioni telefoniche privati legati al caso: 24 file nel primo episodio, 19 nel secondo e 3 nel terzo. Si tratta di contenuti riconducibili alla sfera personale e familiare di soggetti coinvolti, per i quali esisteva una legittima aspettativa di riservatezza. Tradotto: il diritto di informare non autorizza a esporre in pasto al pubblico ogni frammento di vita privata, soprattutto quando non aggiunge nulla alla comprensione dei fatti sul piano giudiziario. Per questo il Garante ha imposto a Quarantadue S.r.l. il divieto di qualsiasi ulteriore diffusione delle registrazioni contestate, consentendone solo la conservazione ai fini di un eventuale uso in sede giudiziaria e ha irrogato una sanzione amministrativa di 40 mila euro. Questa decisione non tocca il cuore processuale del caso Yara, ma individua con precisione il punto in cui il racconto mediatico travalica il perimetro della cronaca giudiziaria per sconfinare nella spettacolarizzazione. In mezzo resta la sostanza, che è fatta di una ragazzina uccisa. Di una famiglia che ha scelto il silenzio come unica forma di autodifesa. Di un condannato che si proclama innocente. E di un sistema giudiziario formalmente solido, ma sostanzialmente traballante e che ora deve pure reggere a tre spinte: la necessità di stabilità delle sentenze, il diritto alla revisione in presenza di reali errori e la pressione costante di un ecosistema mediatico che non conosce pause.